Mar. 18th, 2020

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Fandom: Rise of the guardian/HTTYD
Warning: Hogwarts!AU, JackxHiccup, rating verde
Prompt: M1, The Seeker

Questa storia partecipa al cowt10 di Lande di Fandom




Jack si sistema la divisa passandoci sopra i palmi gelidi come sempre. Ci sono lui e altri tre ragazzi nel campo da quidditch accanto a lui. Dinanzi a loro il capitano gli parla facendo avanti e indietro spiegando cosa vuol dire essere un giocatore di quidditch per Serpeverde.

«Il nostro cercatore si è diplomato l’anno scorso, per questo abbiamo riaperto le selezioni. Ognuno di voi è stato scelto da uno di noi che vi ha raccomandato se così vogliamo dire. La prova è molto semplice. Dovrete prendere il boccino d’oro».

Jack guarda gli altri con determinazione, uno di loro è più grande di lui, mentre l’altro è un anno più piccolo lui. Ricorda quando l’anno prima non avrebbe mai avuto il coraggio di iscriversi e come quest’anno invece ha avuto un incentivo in più. Incentivo che adesso è sugli spalti e lo guarda con il solito viso confortante ed incoraggiante.

Jack prende la scopa in mano e si prende il tempo per prendere confidenza con il manico di scopa che in realtà durante l’estate è diventato un’estensione del suo corpo. Tutti e tre si mettono a cavallo della scopa e aspettano che il capitano faccia volare il boccino.

«Tre, due, uno… Via!»

Il boccino viene liberato in uno sfarfallio dorato che presto perde di vista. I due ragazzi continuano a girare con le scope come trottole impazzite senza nessuna idea di dove andare.

Jack invece si alza in volo, molto più in alto persino degli anelli del portiere e si pone in attesa. Lancia lo sguardo tra le tribune del campo e tra la luce del tramonto di inizio settembre. D’un tratto qualcosa attira la sua attenzione. Stringe lo sguardo. Mette a fuoco.

Eccolo!

Prende il via in un battibaleno scendendo in picchiata verso il campo. I due ragazzi sono subito attratti dal suo movimento e lo seguono. Jack non si dà per vinto e non ha nessuna intenzione di tirarsi indietro.

Vede il boccino dritto davanti a lui. Sta scendendo ad una velocità troppo elevata per riuscire a non schiantarsi al suolo ma è certo che se tiene ancora un po’ riuscirà a prenderlo.

Ancora un po’.

Qualche metro in più.

Allunga la mano.

Sente qualcuno in lontananza urlare il suo nome preoccupato nel momento esatto in cui sente il freddo del boccino tra le dita scoperte dai guanti a mezze dita che indossa. Non appena i suoi sensi si rendono conto di aver preso il boccino vengono messi in allerta dal terreno decisamente troppo vicino. Tenta di far alzare la punta del manico di scopa e quasi ci riesce ma nella forza del movimento subisce il contraccolpo e la scopa tocca terra facendogli perdere l’equilibrio e cadere rotolando rovinosamente a terra.

Sente il mondo girargli intorno per qualche istante e la testa confusa, finché finalmente non si ferma e dopo qualche istante di incertezza apre la mano e vede il boccino che se ne sta placido sul suo palmo.

Il capitano gli è subito vicino attirando la sua attenzione.

«Bravo. Un’azione più da Grifondoro che da Serpeverde ma ha sortito l’effetto sperato. Per me sei dentro»

Jack sbatte gli occhi un paio di volte e si alza sorridente accettando la mano del nuovo compagno di squadra.

«Ragazzi, date il benvenuto al nuovo cercatore di Serpeverde. Jack Frost»

I due ragazzi che hanno gareggiato con lui applaudono poco convinti ma entrambi gli fanno i complimenti.

«Frost, domani allenamento con tutta la squadra. Alle diciotto in punto, intesi?»

«Certo. A domani»

Jack restituisce il boccino ed alza finalmente lo sguardo non trovando nessuno a guardarlo. In quel momento esatto due braccia gli si avvolgono attorno al collo.

«Mi hai fatto prendere una paura pazzesca».

Jack lo abbraccia e gli accarezza i capelli lunghi fino alla spalla. «Scusa»

«Forse mi sono pentito di averti convinto a partecipare i provini», dice Hiccup staccandosi da lui.

Jack sorride. «E cosa farai ora che ci saranno davvero le partite»

«Non mi ci far pensare, dovrò farmi dare qualcosa di pesante per l’ansia. Dici che coltivano qualcosa del genere nella serra di erbologia?»

Jack ride mentre mano nella mano escono dal campo da quidditch per dirigersi agli spogliatoi. Prima che lui entri Hiccup gli si mette davanti e lo guarda fisso.

«Sei felice?»

Jack ci pensa su e gli accarezza una guancia. «Sì, sono felice».

«Allora lo sono anche io, nuovo cercatore», dice ridendo e dandogli un leggero bacio sulle labbra che suggella ciò che ha appena affermato.

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Fandom: RPF Musica XF
Warning:  Rating Verde, Fantasy!AU
Prompt: M1, The sovereign

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Alessio si trova come sempre davanti la stanza del principe con la divisa ordinata, lo sguardo puntato verso l’infinito ed i sensi all’erta. Prende il suo compito molto seriamente, non ha mai saltato un turno e in qualsiasi modo ha intenzione di proteggere il principe che quel giorno diverrà il legittimo sovrano del loro regno.

Sente la porta aprirsi dietro di sé. Non si azzarda a voltarsi finché non gli viene ordinato. Viene investito dal profumo penetrate che proviene sempre dal principe, profuma esattamente come quei fiori che ha visto solo una volta sulle montagne che circondano il regno.

«Sono pronto», sente dire alle sue spalle con il solito cipiglio austero.

Si volta e si inchina quasi in un sol gesto. Riesce ad intravedere solo di sfuggita i capelli ormai completamenti azzurri e gli occhi brillanti che sembrano schegge di vetro.

Si fa da parte e lascia spazio al nuovo sovrano, mettendosi poco distante da lui.

Durante la traversata del palazzo dalle sue stanze al salone delle cerimonie Alessio tiene gli occhi fissi sulla sua schiena esile e sulle gambe sottili che si intravedono da sotto la blusa lunga che lo copre fino a metà coscia.

Sulla testa, perfettamente adagiata sui capelli celesti si trova il piccolo diadema argentato che ha portato fino a quel momento, il simbolo della sua appartenenza alla casata reale ma la prova che non è lui la prima scelta per salire sul trono.

Si chiede come deve sentirsi in quel momento in cui è stato praticamente costretto a prendere in mano le redini di un regno che altrimenti sarebbe andato alla deriva.

I suoi pensieri sono interrotti dal loro arrivo nella stanza. Alessio si pone in attesa che il nuovo sovrano venga fatto entrare nella stanza gremita di persone.

Quando chiamano il suo nome il principe sembra avere un sussulto che lo fa leggermente sobbalzare, così come prima lo segue accompagnandolo al palchetto sul quale già vi è la regina madre e il sacerdote del loro tempio.

Il popolo è in un religioso silenzio come sempre quando lui è nei paraggi ed attende trepidante la fine della cerimonia solenne che darà il via ai festeggiamenti.

«Gennaro di Ceresc, sei stato designato come il prossimo sovrano del nostro prospero regno. Prometti di mettere al servizio del nostro antico regno e del nostro fiero popolo la tua persona ed il tuo giudizio?»

Alessio vede il principe annuire deciso e determinato. Dopo di che si inginocchia fiero, facendo un piccolo inchino in direzione del popolo e si pone in attesa.

Con gesti solenni il sacerdote gli prende il diadema che portava e lo posa su un piccolo cuscino che ha un attendente tra le mani. Poi, prende la corona simbolo dei sovrani di Ceresc e mettendogliela sulla testa annuncia: «Gennaro di Ceresc, ti nomino sovrano del nostro popolo e del nostro regno finché la morte non sopraggiunga nel tuo corpo»

Il popolo esplode in un urlo festoso e Gennaro si rialza dalla sua posizione con calma. Alza un braccio verso il suo popolo e pochi minuti dopo scende dall’altare con la stessa serietà con la quale è salito.

Alessio si fa da parte e lo fa passare, mettendosi poi al seguito del nuovo sovrano.



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Fandom:  Originale
Warning: Moresome
Prompt: M3, Moresome/Originale/SAFE


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Eva sbatte la porta dietro di sé con forza sbuffando sonoramente. Fa due passi avanti e lascia cadere a terra la borsa da lavoro che le stava per staccare un braccio. Non ha la forza morale per prenderla e metterla al posto al momento. Sogna il divano come mai in vita sua in quel momento.

Lancia la giacca sulla poltrona appena dietro l’ingresso della sala e già sogna di buttarsi sul divano quando un grido spaventato la fa sobbalzare sul posto.

«Che cazz… Bianca! Sei tu», esclama non appena la ragazza si libera dalla giacca che lei le ha buttato addosso. «Scusa», dice dandole un bacio sulla fronte e rimettendole a posto i capelli mentre la ragazza la guarda torva. «Dai non guardarmi così, lo sai che non l’ho fatto apposta», si giustifica ancora anche se sa perfettamente che l’altra sta solo scherzando.

Anche senza parlare la sola presenza di Bianca in quel momento le dona una calma e una pace delle quali aveva un disperato bisogno. Le fa un sorriso stanco e finalmente si butta sul divano con ancora le scarpe addosso.

Lo sguardo si perde sul soffitto che dovrebbe essere bianco, ma che è interrotto da macchie di umidità e intonaco scrostato. Sbuffa un’altra volta, ripensando alle ore in più che le toccherà fare nei giorni successivi.

«Che c’è? Perché sbuffi come un treno?» chiede Bianca andandole incontro ed entrando nel suo campo visivo.

Eva si perde un attimo a guardare i suoi occhi scuri, tondi al centro ed affusolati sui lati che tendono a conferirle un’espressione sfuggente. I lunghi capelli scuri lasciati sciolti e la pelle olivastra che ricopre delle membra guizzanti e tese.

«A lavoro mi trattano male», si lamenta Eva mettendo su la voce di una bambina che fa i capricci.

«E perché ti trattano male, sentiamo un po’», chiede Bianca interessata sedendosi e facendole mettere la testa sulle sue gambe, di moda da poterle accarezzare i capelli.

«Perché sono cattivi», continua Eva imperterrita nel suo tono infantile beandosi del tocco leggero delle dita dell’altra sulla pelle.

Bianca non le fa altre domande, la conosce troppo bene. Sa perfettamente che riuscirà a farla parlare solo nel momento in cui vorrà davvero. Così se ne sta quieta a sfiorarle la pelle mentre guarda gli occhi nocciola che sembrano quasi vedi adesso che le luci del lampadario si tuffano nei suoi occhi. Le labbra sono rosse e piene e Bianca si perde nel movimento che Eva fa fare loro mentre sicuramente si sta martoriando con i denti l’intero della bocca.

Mentre sono in silenzio, ognuno a contemplare la bellezza dell’altra, la porta di casa si apre nuovamente.

«Donne», chiama la voce di un ragazzo alta e squillante. «Guardate che vi ho portato»

«Stasera si festeggia», si aggiunge a lui una voce più bassa e roca.

Le due ragazze non rispondono finché non vedono i due ragazzi sulla soglia del salotto della casa che condividono ormai da anni.

Federico, con la barba incolta e nera, ha tra le braccia una cassa di birra che subito rimette in sesto Eva.

Luca, invece, più basso e biondino, ha quattro pizze fumanti che fanno brontolare lo stomaco di Bianca.

«Siete i nostri salvatori», afferma melodrammatica Eva senza alzarsi dalle gambe di Bianca ma tendendo le braccia verso i due ragazzi.

«Lo sappiamo, lo sappiamo», dice Luca posando le quattro pizze sul tavolo e liberandosi della giaccia e delle scarpe puntellando prima un piede e poi l’altro.

Federico e Bianca invece si guardano complici. «Eva sta facendo un po’ la capricciosa», spiega Bianca ai ragazzi che sono appena arrivati.

«Io no capricciosa, io trattata male», si lamenta Eva mettendo su il broncio in una perfetta imitazione di una bambina capricciosa.

«Giusto, scusa. Eva è stata trattata male», concede la ragazza continuando ad accarezzarle i capelli.

«Ma allora qui c’è bisogno di un bel bacio che fa passare tutti i mali», dice Luca girandosi e andando verso le due ragazze.

«Sì, io ho bisogno di tanti baci», dice Eva alzandosi dalle gambe di Bianca e tendendo le braccia verso il ragazzo biondo che la prende in braccio e poi si risiede accanto all’altra ragazza.

«Eccoci qua», dice sistemandosela tra le gambe e beandosi del calore che il suo corpo sprigiona. Eva subito si accoccola su di lui, mettendogli la testa nell’incavo del collo, lasciando che il profumo del dopobarba le invada il corpo.

Il ragazzo continua ad accarezzarle la schiena mentre si rivolge all’altra ragazza e si fa dare un leggero bacio sulle labbra. «A te come è andata?»

«Mi devono far sapere», risponde con una scrollata di spalle.

«È vero! Oddio, tesoro scusami, non ti ho neanche chiesto come è andata», riviene Eva parlando finalmente con la sua voce normale ed alzandosi dalla posizione in cui era per guardare l’altra in viso.

«Non preoccuparti, è solo un’audizione», le risponde Bianca accarezzandole il viso.

«Potrebbe essere LA audizione», replica Eva con il tono decisamente più allegro. «Sono certa che hai spaccato tutto», conclude avvicinandosi al suo viso e guardandola negli occhi quando è ad un centimetro di distanza dalle sue labbra. «Sei la più brava attrice del mondo».

Bianca sorride e la bacia come se così facendo potesse prendere un po’ della fiducia che lei nutre per le sue capacità.

«Allora, che cosa è successo. Ditemi un po’», dice Federico rientrando in sala dopo essersi cambiato ed essersi messo una fascia che gli tiene i capelli indietro. Tra le braccia tiene due birre aperte.

«Bianca ha fatto l’audizione», interviene subito Eva.

«Come è andata, tesoro?»

La ragazza alza le spalle mentre gli fa spazio accanto a lei sul divano. «Come sempre», dice infine prendendogli la bottiglia di mano e bevendone un lungo sorso.

«Sono certo che sarai stata bravissima», continua Federico stringendola a sé e dandole un bacio sulla tempia. «Tu invece? Che hai combinato? Perché sei picciosetta

«Mi hanno fatta arrabbiare a lavoro», inizia Eva rimettendo su il broncio ma non allontanandosi mai troppo dalla stretta di Luca. «Da domani devo fare ore in più perché un collega se ne è andato senza preavviso e nessuno vuole fare il suo lavoro».

«Che palle, ma non te lo puoi fare a casa?»

Eva scuote la testa. «No, ho bisogno di stare lì».

«Sono stati davvero cattivi», conviene Federico facendo annuire Eva che sporge il labbro all’infuori.

«Dai ti vengo a prendere io a lavoro in questi giorni che tanto sicuramente farò tardi», dice Luca abbracciandola un po’. «Non ti faccio tornare a casa da sola».

«Grazie», mugugna Eva che intanto si è di nuovo buttata sul suo collo e ne respira l’odore.

«A voi come è andata?», domanda Bianca passando la birra a Luca che la butta giù senza mai staccarsi troppo da Eva.

«Così, così», risponde il biondo bevendo un lungo sorso e lasciandosi andare alla confessione solo perché il corpo della ragazza che lo abbraccia lo fa sentire protetto e al sicuro. Come se quella sensazione di tepore che gli avvolge il cuore gli permettesse di essere esattamente sé stesso, senza riserve e senza limiti.

Eva gli strofina il naso sul collo e di rimando lo sente accarezzarle la schiena dal collo al bacino, incastrandosi di tanto in tanto nell’elastico del reggiseno. Ama stare tra le braccia di uno di loro e sentirsi protetta e perfettamente capace di proteggere. È una sensazione strana quella che prova per ognuno dei ragazzi seduti accanto a sé, ma ormai ha smesso da tempo di chiedersi cos’è quella strana sensazione che la avvolge quando uno di loro si trova nei paraggi. Ciò che ama di più è il modo in cui le permettono di essere anche la sé stessa più fragile ed infantile. Non deve scusarsi di nulla, può lasciarsi andare in tutto.

«Ti va di parlarne?» chiede a Luca guardandolo negli occhi, spingendosi con le mani poggiate alle sue spalle piccole e forti al tempo stesso.

«Non tanto» risponde lui scuotendo la testa. «Sai cosa vorrei, però?»

«Cosa?»

«Un bacino da Fede che oggi non me ne ha dato neanche uno».

«Hai ragione, quando ci siamo visti avevo già le braccia piene di birra e non ce la facevo a baciarti. Rimediamo subito» e così dicendo si sporge oltre Bianca e aspetta che lui faccia lo stesso. Si baciano facendo sfiorare solo le labbra ma restano uniti a mezz’aria per qualche istante in più, come se qualche forza invisibile li tenesse insieme. Tra di loro succede spesso di indugiare più del dovuto nella stessa posizione senza muoversi beandosi quanto più possibile del contatto così creato.

Federico sorride facendo collidere le loro fronti. «Va meglio?»

«Molto», risponde Luca socchiudendo gli occhi.

«Io ho famissima», annuncia Bianca alzandosi e andando a prendere la sua pizza.

«Pizza! Pizza! Pizza!» esclama felice Eva spostandosi in modo che Luca possa avere più libertà di movimento.

«Vi va se mangiamo sul divano mentre guardiamo un film?»

«Mi sembra un’ottima idea», conviene Bianca iniziando a distribuire le pizze.

«Io vado a prendere altre birre», annuncia Eva uscendo e tornando con tre bottiglie.

«Che vogliamo vedere?»

«Call me by your name», propone Federico.

«Mad Max Fury Road», replica Luca addentando un pezzo della sua pizza con salame piccante.

«Io voglio vedere Harry Potter», dice Eva sapendo già che glielo avrebbero bocciato considerato che hanno fatto una maratona completa già qualche mese fa.

«Perché non vediamo La città incantata?» propone Bianca sedendosi a terra tra le gambe di Eva.

«Per me va bene», dicono i ragazzi mettendosi più comodi con la spalla una contro l’altra.

Bianca prende il telecomando e fa partire il film su Netflix. Lo hanno già visto tutti, ma nessuno di loro ha mai il coraggio di dire di no ad un film dello Studio Ghibli dopo una giornata di lavoro. Appoggia la testa sul ginocchio di Eva che in risposta fa in modo di tenersela un po’ più vicina.

Dal momento in cui ha visto i tre ragazzi sapeva che sarebbero state tra le persone più importanti della sua vita, non pensava in questo modo, di certo. Nessuno di loro poteva aspettarselo, forse solo Federico che più di una volta ha detto che non appena li ha visti ha sentito che sarebbero stati insieme.

Bianca non ci crede davvero ma vedere Federico che dichiara amore eterno a tutti e tre con tutto quel trasporto è sempre divertente e contemporaneamente le scalda il cuore.

Il film scorre veloce con i suoi suoni ed i suoi colori, Bianca si perde completamente nella sua magia lasciando da parte le preoccupazioni per il suo lavoro e le ansie per l’incertezza che ne deriverà. L’unico conforto che riesce a trarne è la consapevolezza di star facendo ciò che più la appassiona senza avere rimpianti. Di sicuro qualche rimorso, ma nessun rimpianto.

Cosa che non può dire della sua ragazza. Eva le accarezza i capelli distrattamente e Bianca alza lo sguardo per guardarla in volta. Gli occhi sono completamente rapiti dal film ma lo sa cosa sta pensando. Sa quali sono le voci che gli si agitano in quel momento nella testa e sa cosa stanno gridando. Si stringe ancora alle sue gambe lasciandole un bacio sul ginocchio. Eva di contro la fa alzare e se la mette in braccia stringendola per la vita, tenendole le labbra premute sulla spalla.

Il film finisce prima che Bianca possa rendersene conto ma nessuno di loro ancora si muove per non disperdere il calore umano che sono riusciti ad imprigionare tra i loro i corpi e che nutre le loro anime da quando si sono conosciuti.

«Prima o poi riuscirò a non a piangere, ma non è questo il giorno!», annuncia Eva facendola alzare e alzandosi a sua volta.

Federico le intima di fare più piano e quando si girano notano che Luca sta dormendo sulla spalla dell’altro con la bocca leggermente socchiusa e il volto rilassato.

«È così bello quando dorme», commento Bianca.

Federico sorride con un angolo della bocca. «Lo porto io a letto».

«Dormiamo tutti insieme?» chiede Eva stiracchiandosi e sbadigliando.

«Certo», dice Federico sussurrando e prendendo Luca tra le braccia, come una sposa, sperando di non farlo svegliare.

Le ragazze gli fanno spazio e quando l’altro lo posa sul letto lo aiutano a spogliarlo e a fargli mettere il pigiama, rassicurandolo che si prendono cura loro di lui, quando scosso dai movimenti si sveglia.

Poco più tardi sono tutti pronti per andare a dormire. Federico tiene un braccio attorno al fianco di Luca che gli dà le spalle e si tiene vicinissimo al suo corpo dando una mano ad Eva che ha le gambe incrociate con quelle di Bianca che dorme nel lettino che tengono sempre nella stanza di Federico e Luca per tutte le volte che hanno voglia di dormire insieme.

Tutti e quattro si rilassano, facendosi cullare dal calore e dal rumore dei respiri degli altri. Finché non cadono tutti in un sonno ristoratore e accogliente come gli abbracci che ognuno riserva all’altro.

 

 



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Fandom: RPF Musica, urban strangers
Warning: AU
Prompt: M4, Storia con pov diversi + arranged/political marriage

Questa storia partecipa al cowt10 di Lande di Fandom



Genn guarda fuori dalla finestra il giardino dove amava giocare da piccolo. È identico a come lo ricorda eppure diverso. Gli alberi enormi adesso sono semplicissimi alberi. Il verde rigoglioso in cui si perdeva non è altro che normalissimo verde, spento in alcuni punti, nulla di straordinario. Il portale che credeva lo conducesse in un luogo fatto solo per lui, in realtà non è altro che tronco spezzato a metà da un fulmine cadutovi giusto sopra.

«Signorino, siete pronto?»

Genn distoglie lo sguardo dai suoi ricordi. «Sì, certo», asserisce alla ragazza che è venuta a chiamarlo. La vede guardarlo con occhi tristi, compassionevoli e pietosi. La odia. Non vuole essere compatito, non ne ha bisogno. L’unica cosa che vorrebbe è una via di fuga ma non c’è, ed in realtà non avrebbe neanche senso cercarla. La sua famiglia ha bisogno del suo sacrificio e lui non si tirerà indietro.

Si guarda un’ultima volta allo specchio. Ha i capelli ordinati e pettinati, gli ricade solo un piccolo ciuffo sulla fronte per dargli un aspetto più naturale ma anche quel piccolo dettaglio è stato pensato e previsto adeguatamente da qualcun altro.

Tutta la sua vita gli sembra andare in quel senso, da qualche tempo a quella parte. Da quando il giardino ha smesso di essere il suo regno incantato ed è tornato ad essere un semplicissimo giardino.

«Sono pronto».

La ragazza si inchina e gli fa spazio. Esce dalla sua stanza con l’animo livido ma la decisione dipinta sul viso fiero e altero.

Il colletto di pizzo gli solletica fastidiosamente il collo, legato com’è con un nastrino blu notte. L’abito che indossa invece è della migliore sartoria della città, lo ha comprato suo padre risparmiando su nulla. A partire dai bottoni dorati che sembrano stelle su un cielo terso di tessuto pregiato che sembra accordarsi perfettamente ai suoi occhi azzurri. Le gambe sono avvolte in calzoni dello stesso colore che si perdono all’interno degli stivali neri lucidati perfettamente. Sui lati di quest’ultimi vi è il suo stemma, la “G” del suo nome con una piccola stella nella curvatura.

Il corridoio è stranamente silenzioso considerando l’occasione. Con ogni probabilità sono già tutti nel luogo della cerimonia. Nel corridoio muto sente solo i propri passi rimbombare sulle pareti perfettamente pulite e ridipinte, quelli della ragazza che lo segue e il battito del suo cuore che sembra non volersi fermare.

Respira, per calmarsi. Respira per sentirsi ancora vivo. Respira forse per sapere che c’è ancora qualcosa che può fare senza che altri gli dicono come e quando deve farlo.

Il vociare delle persone inizia a farsi sentire non appena raggiunge l’ala Ovest, con esso anche il battito del suo cuore che sembra volergli uscire dal petto disperato, chiedendogli di non privarlo per sempre della possibilità di amare, pregandolo di lasciare almeno lui libero.

Se avesse potuto lo avrebbe fatto, se avesse potuto strapparsi il petto dal cuore e permettere, almeno ad una parte di sé, di vivere la sua vita in libertà lo avrebbe davvero fatto.

Arriva dinanzi le porte socchiuse della grande sala allestita per il lieto evento. Due servitori con le divise perfette e ordinate come la sua, si inchinano dinanzi a lui.

Si volta un’ultima volta. La ragazza che è venuta a chiamarlo non c’è più. Non si è neanche accorto che lo ha lasciato. Uno dei servitori all’ingresso richiama la sua attenzione.

«Dentro è tutto pronto, signorino. L’annunciamo?»

Gennaro annuisce con lo sguardo rassegnato ma ostinato nel fare la cosa giusta per la sua famiglia. «Certo»

La porta si apre lasciandolo accecato per qualche istante che in realtà sembra infinito.

«Il Signorino Genn, della famiglia Kingsleigh»

Genn prende un respiro e finalmente riesce a mettere a fuoco la sala. Due lunghe file di panche sono disposte ai lati di un corridoio stretto, ai lati del quale sono disposte piccole colonnine sormontate da vasi piene di fiori.

Su ogni panca vi è un nastro bianco legato in un fiocco che lascia ricadere sul tappeto centrale i suoi lacci, come tante lacrime che scendono da guance accaldate.

Il servitore si fa da parte e Genn si ritrova al centro dell’attenzione di tutti gli invitati. Lo guardano con grandi sorridi aperti su volti falsi o disinteressati. Lui avanza guardando avanti, senza voltarsi neanche quando lo chiamano per salutarlo. Nonostante il suo sguardo è puntato in avanti cerca di fissarsi su un punto nel vuoto guardando il quale riesce a non concentrarsi su nessuna delle persone che si trovano dinanzi a lui, finché non diviene troppo vicino per riuscirci.

La prima persona che nota è sua madre seduta in prima fila con le lacrime agli occhi. Sulla sua spalla, in una presa salda, trova posto la mano di suo padre che lo guarda forte, sicuro ed ostinato nelle sue convinzioni. Poco più avanti, in piedi, c’è sua sorella con un abito bellissimo di un celeste chiarissimo e i capelli biondo cenere che le ricadono in morbidi boccoli sulle spalle.

Di lato, un po’ distante, posto su un piccolo altare attrezzato per l’occasione, un sacerdote lo guarda sorridente.

Non osa posare gli occhi sulla persona dinanzi al sacerdote sull’altare. Non è per paura che non lo fa, ma per illudersi un attimo ancora che tutto ciò non stia succedendo.

Guarda sua sorella che gli sorride incoraggiante con le mani tenute sul ventre in una posa che ha assunto ormai da qualche mese. Cera di ricambiare ma molto probabilmente non ci riesce molto bene mentre mette un piede sull’altare e finalmente prende il posto che tutti si aspettano lui occupi ma che non è il suo.

Il sacerdote può finalmente iniziare la cerimonia. Le sue parole sono una tetra nenia che accompagna solenne la celebrazione della fine del suo essere Genn Kingsleigh.

D’un tratto, gli prende le mani e le lega a quelle dell’altra persona accanto a lui. Genn non si volta neanche in quel frangente, si limita a tenere la mano sulla sua come se non gli appartenesse.

«Genn Kingsleigh, affermi tu di essere qui nel pieno delle tue facoltà mentali e del tuo volere per prendere in sposo Alex Alcott, amarlo ed onorarlo in salute e in malattia finché morte non vi separi?»

«Sì», risponde Genn voltandosi finalmente a guardare il volto di colui che diventerà suo marito e con il quale dividerà la vita per il resto della sua esistenza.

La prima cosa che nota è la mandibola segnata e tesa in quel momento, il naso perfettamente dritto con una leggerissima concavità che fa dirigere la punta di poco verso l’alto. Le labbra così sottili da sembrare quasi che il superiore non ci sia tirato e teso com’è in quel momento.

Gli occhi sembrano piccoli e affilati, incastonati in un viso delle giuste proporzioni.

Sebbene in un momento diverso ed in circostanze a lui più congeniali avrebbe trovato il ragazzo accanto a lui quanto meno affascinante, adesso quella stessa bellezza gli sembra quasi un insulto alla sua condizione. Come se il suo essere un bell’uomo rendesse quella specie di castigo un po’ meno tale ai suoi occhi e di conseguenza lui stesso meno autorizzato ad essere arrabbiato per quella storia.

Si costringe a mettere da parte quei pensieri. È un prigioniero e nulla cambierà la sua condizione.

*

Alex sente le sue mani sudare e tremare al tempo stesso. Si chiede se Genn riesce a sentire quanto è agitato in quel momento e questo gli mette ancora più ansia.

Concentrato com’è sui suoi pensieri quasi non si accorge che è arrivato il suo momento di accettare l’unione.

Percepisce un fremito nella mano di Genn quando tarda a rispondere ma sembra tornare morta e inerte nel momento esatto in cui riesce a pronunciare «Sì».

Si volta nella sua direzione ma non alza lo sguardo verso i suoi occhi, lo fissa invece sulle sue labbra che nota essere piene e carnose, cosparse di piccoli graffi nella parte interna e umide in quella esterna.

Si avvicina e gli lascia un minuscolo bacio lieve sulle labbra, che lui non ricambia. Si rimettono entrambi ai loro posti. La cerimonia finisce e nessuno di loro due osa guardare l’altro. Vede sua madre venirgli incontro e abbracciarlo forte. Suo padre gli porge la mano e si congratula con un «Ben fatto», lui lo ringrazia con un cenno del capo perché non è certo di come reagire in quella situazione, considerando che non ha avuto molta scelta.

Persone che non conosce e parenti lontani si vanno a congratulare con lui e lui, come gli è stato insegnato, ha un sorriso ed una parola cordiale per chiunque. È riuscito, grazie alla sua gentilezza e all’educazione impartitagli di fare della diplomazia il suo punto forte.

Finalmente tutti gli invitati si sono congratulati con lui, tira un sospiro di sollievo e si volta verso Genn. Sono rimasti solo lui e i suoi genitori. Ha lo sguardo incavato nel viso come se gli occhi fossero troppo pesanti per venire fuori. Eppure, l’azzurro di cui sono impregnati è così brillante da essere perfettamente visibile nonostante lo sguardo tetro. Il naso è leggermente schiacciato e non del tutto dritto ma conduce lo sguardo magistralmente verso le labbra piene e carnose di cui Alex ha avuto un assaggio poco prima. Il viso è affilato e magro, i capelli biondi e l’atteggiamento austero e temibile.

Quanto di più diverso ci sia da lui, che presto ha invece imparato che il suo aspetto risulta gentile e accondiscendente, atteggiamento che non gli è venuto difficile assumere, sicuramente anche per inclinazioni personali, ma che spesso si domanda se sia proprio del suo essere interiore o di quello che si è costruito per semplicità.

Va verso i suoi novelli suoceri, bacia la mano alla signora e poi stringe quella del padre.

«Sono certo che le nostre famiglie così unite saranno la gioia di entrambi», afferma il padre di Genn raggiante.

Alex guarda di sottecchi Genn che continua a tenere lo sguardo fisso sul pavimento e l’umore tetro e annuisce distratto. I suoi genitori vengono a salutare il nuovo genero che li tratta con freddezza e se non fosse per quella stilla di rassegnazione che Alex gli coglie nello sguardo forse gli avrebbe detto qualcosa.

«Signori – annuncia un servitore in livrea – siamo pronti per annunciarvi nella sala del ricevimento».

«Bene, perfetto».

I genitori di entrambi si affrettano per lasciare la stanza. Adesso sono soli. Alex può sentire distintamente il cuore dell’altro battere forsennatamente.

Lo guarda e nota come il suo aspetto esteriore non combaci per nulla con ciò che probabilmente prova al momento.

«Siete agitato?»

«Dammi del tu, dobbiamo passare il resto della nostra inutile vita insieme. Almeno cerchiamo di ridurre le falsità»

Alessio lo guarda con un sopracciglio alzato. «Va bene, allora. Sono agitato anche io, comunque. Non pensavo che mi sari sposato…»

«Senti, non devi farlo per forza»

Alessio lo guarda confuso.

«Essermi amico intendo. Cerchiamo solo di non renderci la vita più infernale di quella che già è»

Alessio lo guarda incuriosito. Per qualche motivo non si sente ferito da quelle parole. È come se sentisse che non è odio rivolto a lui. È come se sentisse esattamente le motivazioni che le hanno mosse e non si sente in grado di biasimarle. Quindi acconsente e porgendogli il braccio attende che lui posi il proprio.

«Va bene, facciamo come vuoi tu, ma ti chiedo solo un’ultima falsità, dopo di che potrai tornare a far vedere quanto odi stare qui con me»

Genn lo guarda finalmente con un’espressione leggermente diversa dalla sua solita austerità mista a rassegnazione. «Dimmi».

«Se non puoi fingere di essere felice oggi, fingi almeno che ti vada bene questa situazione. Mia madre aspettava questo giorno per me da molto tempo. Non voglio che sia triste»

Genn lo guarda per attimi che sembrano infiniti, sente i suoi occhi scavargli l’anima e per attimo il suo cuore smette di battere.

Alex si sente completamente rapito da quella che è la luce in fondo agli occhi del ragazzo che ha di fronte. Un brillio raro, una lucentezza attraente che gli rapisce la mente finché non è egli stesso a liberarlo.

Quasi si trova sul punto di chiedergli cosa ha fatto, perché si è sentito così connesso a lui ma non fa in tempo perché l’altro lo precede.

«Va bene. Oggi faccio finta che mi vada bene ma da domani mi permetterai di essere libero di esprimere il mio dissenso»

Alex lo guarda interdetto, con la pressante sensazione di star chiudendo un contratto dal quale non potrà rescindere facilmente e che gli procurerà non pochi problemi. Però Genn ha acconsentito esattamente a ciò che gli ha chiesto e adesso non può tirarsi indietro.

Cosa darebbe per essere nella sua mente e per sapere cosa ha davvero in mente con quelle parole.

Lo guarda ancora un attimo, poi tende la mano e lo guarda convinto. «Affare fatto».

Genn lo guarda titubante e giudicante. «Siamo sposati, non c’è bisogno stringersi la mano per confermare un patto».

«Il matrimonio che abbiamo appena finito non vale molto per te, da quello che mi è sembrato di capire. Voglio qualcosa che per te valga. Una stretta di mano è un patto tra uomini qualsiasi sia il legame che li unisce».

Genn lo guarda stringendo gli occhi. «Va bene», esordisce infine stringendogli la mano e guardandolo negli occhi.

Alex ricambia la stretta e per la prima volta in tutto quel giorno sente da parte di Genn un’emozione vera e reale, oltre alla rassegnazione che è riuscito a scorgere poco prima. La sua mano trema nella stretta e i suoi occhi perdono un po’ di quell’atteggiamento austero che hanno avuto fino a quel momento.

Quando Genn sfila la mano dalla sua, Alex si riscuote cercando di darsi un tono e tentando di riprendere possesso delle sue facoltà.

«Bene, dopo che abbiamo stretto un patto, almeno questa volta, volontario come ci hanno insegnato i nostri padri, possiamo iniziare la pantomima che ci hanno costretto ad interpretare», annuncia rimettendo il braccio alzato, aspettando che lui prenda il suo posto in quella posizione.

Alex non si fa attendere e gli si mette accanto sorreggendo il suo braccio. Le mani non gli sudano più, non per questo si sente meno agitato però. In ogni caso, l’avere accanto Genn ed essere consapevole che persegue il suo stesso obiettivo lo fa sentire più sicuro della riuscita di quella giornata che solo poche ore prima gli sembrava impossibile affrontare.

Prendono un respiro ed infine varcano la soglia della porta insieme.



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Fandom: RPF musica, Benji e Fede
Warning: Historical!AU, rating arancione
Prompt: M4, salto temporale + reincarnation

Questa storia partecipa al cowt10 di Lande di Fandom


334 d.C., nei pressi di Modena

Ben corre a perdifiato nel buio cercando di non farsi vedere e non farsi udire, anche se con il chiasso e le urla che sente non pensa che possano davvero sentirlo.

Ha il cuore che gli martella il petto ma non ha intenzione di fermarsi, neanche i piedi che iniziano a dolere lo distoglieranno mai dal riuscire ad arrivare alla sua meta. Zittisce i pensieri apprensivi che gli affiorano nella testa non appena gli viene in mente il ragazzo verso il quale sta scappando.

Salta un ramo caduto all’ultimo cercando di rimettersi in equilibrio perdendo il meno possibile la velocità acquisita. Ha il terrore di arrivare in ritardo, di non arrivare in tempo per salvarlo e proteggerlo.

Finalmente riesce a lasciarsi alle spalle il gruppo di persone che seguendo il sentiero si dirige dalla sua stessa parte. Il silenzio in cui è avvolta la macchia verde nella quale corre non lo aiuta a concentrarsi, però. La mente continua a vagare tra pensieri negativi e ricordi rosei senza una continuità logica, senza che lui possa fare qualcosa per fermarli.

Finalmente intravede l’abitazione che sta cercando attraverso i tronchi fitti. Scorge una luce dalla finestra e questo lo fa ben sperare. Quando finalmente vede una figura che vi passa davanti, una figura che riconoscerebbe tra mille, perché ormai fa parte di lui e del suo essere, sente la tensione calare di colpo percorrendolo con un brivido gelido.

Accelera la corsa e non appena si trova abbastanza vicino bussa alla porta con forza e concitazione. Quando finalmente la porta viene aperta, Ben vede due occhi azzurri che sembrano acqua, capelli scuri resi biondi dal sole sulle punte, l’espressione confusa che muta subito in sorriso non appena lo vede e sente il blocco creatosi dapprima nello stomaco sciogliersi come neve al sole.

«Pensavo ti avessero già preso», gli dice buttandogli le braccia dietro al collo e beandosi del calore del suo corpo per qualche istante. Sente le braccia cingergli i fianchi e poi scansarlo dolcemente per guardarlo negli occhi.

«Che succede, Ben?» chiede Federico con l’urgenza nella voce.

«Siamo stati traditi da qualcuno – dice infilandosi nella casa che ormai conosce più che bene – credevo potessimo avere qualche altro giorno ma non è così. Sono venuti prima a bussare a casa mia, ma non ho aperto e sono fuggito dal retro».

Sul viso di Federico finalmente iniziano a delinearsi segni di comprensione. Gli occhi si sgranano e velocemente si richiude la porta alle spalle. «Stanno arrivando?» chiede ancora un po’ incredulo, guardando Ben spaventato.

«Dobbiamo andare prima.» dice risoluto Ben guardandolo negli occhi e prendendolo per le spalle. «Andrà tutto bene. Te lo prometto», bisbiglia cercando di rassicurarlo dandogli un bacio leggero sulle labbra.

Guarda i suoi occhi grigi e affilati che sono diventati da tempo ormai il suo rifugio nei momenti bui. Si bea del leggero tocco e della successiva sensazione di pace che ne deriva e si chiede come sia possibile che una cosa che lo fa stare così bene possa essere un problema per qualcun altro.

Il mondo sta cambiando e ciò che prima avrebbero potuto forse faticosamente portare avanti di nascosto adesso è diventato un pericolo per la vita di entrambi e nessuno di loro si permetterebbe mai di essere la causa della fine dell’altro.

Carico di quei pensieri Federico annuisce e cerca di farsi forza. «Prendo l’anello che mi ha lasciato mio padre, spero valga qualcosa», dice più a sé stesso che all’altro iniziando a cercare l’oggetto.

«Sì, io ho preso il bracciale di mia madre e le medaglie per le campagne asiatiche», dice affacciandosi dalla finestra e scorgendo le prime torce. «Fede, ci dobbiamo muovere».

Federico prende l’anello e l’unica medaglia che abbia mai ricevuto durante gli anni da soldato e se li assicura dentro ai calzoni. «Sono pronto», dice a Ben.

Escono dalla finestra che dà sul retro, lasciando il camino acceso. Una volta fuori sentono distintamente le voci bellicose dei cittadini arrivare fino a loro. Federico sente lo stomaco stringersi dall’ansia. Guarda un’ultima volta la casa che è sua e della sua famiglia da generazioni, che suo padre ha tenuto in piedi, che lui stesso ha risistemato e sente il cuore stringersi in una morsa di nostalgia.

Tutta la sua infanzia e le sue radici sono in quella cosa, che ora sta abbandonando per non esservi strappato via da mani ignoranti ed impaurite, aizzate da poteri che hanno solo bisogno di trovare una male comune per unificare i sudditi.

Ben gli stringe la mano. Non lo gli parla ma Federico riesce a distinguere la brillantezza dei suoi occhi che lo fissano e cercando di fargli coraggio, nonché il calore e la decisione che derivano dalla sua stretta.

Ben lo tira verso di sé ed inizia a correre, Federico lo segue e lo imita lasciandosi la casa della sua famiglia alle spalle, consapevole che non la vedrà mai più.

Il bosco nel quale corrono è ricco di insidie ma entrambi lo conoscono bene. Federico ci va a caccia da quando riesce a tenere un pugnale tra le mani e Benjamin ha imparato a conoscerlo nei mesi di congedo militare che hanno passato insieme e che Fede ricorderà come i più felici della sua vita.

Il fiato inizia a mancargli nell’esatto momento in cui Ben rallenta l’andatura. Davanti a loro, avvolto dall’oscurità della notte si scorge un minuscolo lume rossastro che emano bagliori sanguigni che illuminano il buio.

Sempre senza sciogliere le mani tra di loro, avanzano con passo veloce verso ciò che sperano possa aiutarli nella decisione che hanno preso.

Federico guarda Benjamin, ha il volto imperlato di sudore e la bocca dischiusa che cerca di prendere aria. Non sa quante volte lo ha visto così sul campo di battaglia o su quello di addestramento, ma è grato del fatto che adesso non ha negli occhi l’espressione di disgusto e smarrimento che sempre gli vedeva in volto quando tornavano al campo dopo una battaglia.

Gli stringe la mano e si bea del gesto gemello che Ben gli riserva facendolo sentire protetto e parte di qualcosa come non si era più sentito dopo la morte dell’ultimo membro della sua famiglia.

Non appena sono abbastanza vicini al lume che vedevano da lontano si rendono conto che la torcia è posta all’ingresso di una grotta che si apre con una fessura che sembra una ferita profonda nella roccia, come se un gigante ci avesse scagliato una freccia attraverso e adesso fosse rimasto solo il segno dell’orrendo vuoto che l’arma vi ha inferto.

Fede sente un brivido percorrergli la schiena, facendogli drizzare i capelli sulla nuca. Si blocca un attimo, fermando di conseguenza anche l’avanzata di Ben.

«Che c’è?» chiede il più grande guardandolo preoccupato.

«Tu sei sicuro che andrà bene?»

Ben ingoia a vuoto. «Non ne sono sicuro, Fede, ma l’incertezza di una vita in cui non dobbiamo nasconderci e in cui non devo aver paura di perderti per ciò che provo per te è più allettante della certezza di non averti in questa».

Fede lo guarda fisso. Prende un respiro e si impone autocontrollo, lo stesso a cui faceva appello ogni volta che si trovava tra le fila dell’esercito schierato.

Insieme penetrano nella tetra oscurità della grotta e presto la loro vista non serve più a nulla. È un nero innaturale quello che c’è lì e Federico si sente di nuovo preso dall’ansia e dalla paura. Stringe la mano di Ben e cerca di fare attenzione a dove mette i piedi per non inciampare nei suoi.

«Fermatevi»

È una voce spettrale che sembra provenire direttamente dalla torre quella che sentono. Fede si avvicina a Ben, sente la sua spalla alzarsi e abbassarsi in un respiro ansioso esattamente come la sua.

«Siamo qui per il rituale – inizia Ben – Abbiamo portato l’oro e quanto di più prezioso abbiamo»

Nessuno risponde per minuti interi che in quel buio sospeso potrebbero essere anche ore.

«Non è ciò che avete in tasca ciò che di più prezioso possedete»

Benjamin è già sul punto di controbattere che la voce lo anticipa. «È ciò che stringete in mano».

Federico si guarda la mano vuota, che cosa intende? La frustrazione inizia ad essere più pressante della paura ma nulla gli viene in mente da fare o da dire, perciò se ne rimane in silenzio con la spalla attaccata a quella di Ben e la mano stretta nella sua.

«Questo è il giorno della vostra morte. Ognuno di voi morirà oggi stesso»

«Siamo venuti perché ci hanno detto che avremmo potuto avere una possibilità, seppur minima, di non doverci vergognare di ciò che siamo»

«Questo, ragazzo, è un privilegio che hanno in pochi»

Federico sente Ben fremere di ansia e aspettativa. «Allora, ci aiuterai?»

«Aiuterò uno di voi se l’altro sarà disposto a sacrificare ciò che ha di più caro».

La voce è sempre più gracchiante e terrificante, sembra graffiare direttamente i muri ogni volta che parla con loro.

«Cosa vuoi che facciamo?»

«Stendetevi a terra e stringete ciò che avete di più caro. Se il vostro cuore non sarà concorde con il vostro desiderio, le vostre anime saranno la mia ricompensa»

«Che facciamo?» sussurra Federico sperando che some sempre Ben se ne venga con un’idea per tirarli fuori da quella situazione.

«Ascoltami», dice Ben risoluto, «Devi avere fiducia di me. Ti fidi di me, Fede?»

Federico appoggia la fronte a quella di Benjamin aiutandosi con le mani a causa del buio. «Sì, da quel giorno sul campo di battaglia»

Sente Ben accarezzargli i capelli. «Anche io mi fido di te. Adesso stenditi accanto a me»

Fede fa come gli viene detto.

«Lascia tutto ciò che hai portato accanto a te»

Libera dal laccetto che lo tiene assicurato ai calzoni il sacchetto dove aveva messo le cose più preziose che aveva e se lo mette accanto. Poi poggia la testa sulla pietra fredda. Sente Benjamin fare lo stesso.

Il cuore inizia a battergli all’impazzata e l’unica cosa che vorrebbe è scappare il più lontano possibile via di là. È la stessa sensazione che ha imparato ad ammansire e a tenere a bada quando si trovava davanti il nemico. Respira profondamente e cerca di calmarsi.

«Andrà tutto bene, te lo prometto».

Federico annuisce nel buio non curandosi del fatto che Ben non possa vederlo. L’ultima cosa che sente è Ben che gli stringe la mano, lui fa lo stesso. Poi dal terreno si inizia sprigionare un gorgoglio funereo e terrificante. Sente il corpo tremare violentemente e i polmoni svuotarsi lasciandolo senza aria e senza forze.

L’ultimo contatto con la realtà è Ben. Poi più nulla.

 

*

1567, nell’Oceano Atlantico

Benjamin si precipita fuori dalla sua cabina nel momento esatto in cui sente il colpo di una pistola provenire dal piano di sopra. Sguaina la spada mentre si dirige a grandi passi verso le scale. Era stato avvertito dal quartiermastro dell’avvicinamento di una nave ma aveva i colori della loro stessa nazione e non si era preoccupato troppo, aveva fatto un errore di valutazione era ovvio dal chiasso che proveniva dal ponte.

«Che sta succedendo?», chiede ad un giovane ragazzo con il volto impaurito e determinato in egual misura, fermandolo di forza mentre scendeva le scale come un dannato.

«Ci hanno attaccato, capitano. La nave in avvicinamento conteneva in realtà pirati, ma il nostromo se ne è accorto in tempo e stiamo riuscendo a contrattaccare»

«Bene, va», dice Ben lasciandolo andare malamente e scapicollandosi sulle scale per dare man forte ai suoi. 

Non appena mette piede fuori la luce del giorno lo acceca per un attimo ma i suoni della battaglia lo tengono sveglio e ricettivo. I suoi uomini si stanno difendendo bene e con coraggio, come sono stati sempre abituati a fare.

Non appena i suoi sensi glielo permettono si avventa su un pirata che è sopra uno dei suoi calciandolo via forte e poi infilandogli la lama direttamente nelle viscere, assaporando il momento in cui la spada perfora tessuto e carne uscendo dal lato opposto.

Aiuta il suo uomo a rialzarsi e comincia a dar battaglia a nuovi pirati che tentano l’arrembaggio sulla nave passando dalle passerelle che hanno messo tra le due navi per facilitarsi il passaggio.

Ben con un rovescio fa scivolare di lato uno dei pirati che stava tentando la traversata facendolo cadere tra le due fiancate, sbattendo prima su una e poi sulla ed infine cadendo in mare. Con forza, aiutato anche da un altro dei suoi uomini buttano giù una delle passarelle.

Senza perdere tempo corre verso la prua dove il grosso della battaglia sta avendo piede e libera uno dei suoi conficcando un proiettile dritto nella testa dell’uomo che lo stava assediando, che gli ricade addosso privo di vita.

Riesce finalmente a raggiungere il nostromo che sta spronando gli uomini a difendere la nave e l’onore.

«Sono spagnoli, capitano», dice l’uomo grosso e nerboruto con la casacca macchiata e il volto sfigurato dalla fatica. «Non penso sappiamo che siamo corsari, ci hanno scambiati per una nave mercantile»

Un sorriso beffardo e terribile si dipinge sul volto di Ben. «Bene. Sei riuscito a capire chi è il capitano?»

«Ancora no, signore. Sono dei diavoli questi, sono riuscito a malapena a prendere un respiro tra un morto e l’altro»

«Continua così, Morris»

Benjamin corre di nuovo verso il fitto della battaglia. Una passerella crea ancora un legame tra le pance delle due navi. Sta per andare a reciderlo nel momento in cui si rende conto che nella foga della battaglia sull’altra nave sono rimasti pochi uomini, con ogni probabilità i meno esperti.

Si volta alla ricerca spasmodica di qualcuno che possa seguirlo, fa cenno a un paio di uomini che immediatamente si mettono dietro di lui e scendono sulla nave nemica facendo fuori gli ultimi rimasti.

«Controllate la stiva».

«Sì, capitano»

Benjamin intanto va alla ricerca del capitano della nave. Non gli è sembrato di vedere qualcuno che avesse più potere di altri o che dettasse ordini, per questo è giunto alla conclusione che deve necessariamente trovarsi ancora sulla nave.

Si reca a poppa, cercando la cabina dove è certo di trovarlo, ma non appena la apre la trova vuota e per niente come se la sarebbe aspettata. A dirla tutta assomiglia di molto alla sua, non che le cabine del capitano sui velieri non siano tutte uguali ma questa ha qualcosa di famigliare che non riesce a non fargli pensare a come lui stesso ha disposto la propria.

Rimane per un attimo impigliato in quei pensieri finché non gli arriva una voce da sopra. Si distoglie a fatica da quel ragionamento e nota che vi sono vari diari di bordo sulla nave, li sfoglia velocemente e decide di prenderli con sé.

«Capitano, abbiamo trovato solo un piccolo forziere, polvere da sparo e vettovaglie», gli dice una voce da su.

«Vai a chiedere al signor Spencer quanta polvere da sparo ci manca e… anche le vettovaglie. Se non ci occorre tutto il loro carico porta la polvere sul ponte e assicurala all’albero maestro».

«Sì, signore».

Ben sale nuovamente sul ponte e butta uno sguardo alla sua nave. I suoi uomini sono riusciti quasi del tutto a sconfiggere gli assalitori. Qualcosa colpisce i suoi occhi nel momento in cui sta tornando sulla sua nave, un bagliore che non viene dal sole ma sembra proprio appartenergli. Ne rimane accecato per un attimo non tanto a causa degli occhi quanto a causa del suo animo che si ritrova per un attimo irradiato da qualcosa che non ha mai sentito.

Un uomo dell’altra ciurma, però, prende quel momento di distrazione per attaccarlo mentre urla improperi nella sua lingua. Benjamin fa un passo indietro nel tentativo di scartare e difendersi dall’attacco improvviso.

Nonostante le distrazioni e quella strana sensazione il suo corpo addestrato reagisce per lui, non è di certo diventato uno dei corsari della regina per nulla.

Para un affondo laterale e poi un attacco diretto, finché non riesce a bloccare la lama del suo avversario proprio davanti la sua faccia spingendolo via e facendogli perdere l’equilibrio quel tanto che basta per aver tempo di prendere la pistola e sparagli dritto in faccia.

«Capitano, ho fatto quello che mi avete detto. La polvere che non ci occorre l’ho assicurata all’albero maestro»

«Ben fatto. Adesso vediamo di chiudere questa faccenda che è durata già troppo».

Entrambi si recano sulla nave e danno man forte agli uomini rimasti. In pochi minuti i pirati vengono tutti disarmati e accerchiati al centro della nave.

«Legateli», urla il nostromo.

Benjamin cerca il quartiermastro e gli ordina di organizzare il trasporto del forziere e della polvere necessaria sulla loro nave.

«Bene, oggi avete avuto un assaggio del perché l’Inghilterra non potrà mai essere sottomessa a voi gente come voi», dice consapevole che nessuno di loro probabilmente lo capisca. «Chi di voi si fa chiamare capitano?», continua guardando gli uomini sporchi e tumefatti, con gli occhi pieni di rammarico per la sconfitta appena subita.

Un uomo fa un passo avanti. Dapprima vede solo gli stivali neri consumati, mangiati dalla salsedine e dall’usura, all’interno dei quali sono infilati dei calzoni neri sdruciti e rattoppati in più punti. Di certo non una ciurma fortunata, considerando lo stato dei vestiti del suo capitano. Una camicia slabbrata e sporca ricopre il corpo cotto al sole, come si intravede dalla pelle del petto e delle spalle lasciata scoperta dall’indumento rovinato. Il collo e il viso sono scuri anch’essi, così come le labbra spaccate e tumefatte. Il naso è incredibilmente dritto e al lato ci sono due occhi azzurri come l’oceano che incontra la riva.

Benjamin sente l’aria mancargli nei polmoni senza motivo. Guarda quel volto che non ha mai visto, che non ha la minima idea a chi appartenga ma che per qualche motivo gli abbaglia l’anima.

Passano forse troppi minuti, perché il quartiermastro richiede la sua attenzione. «Capitano, è tutto a posto. Come procediamo?»

Benjamin sforzandosi con tutto sé stesso distoglie lo sguardo e cerca di procedere in automaticamente. «Allontaniamoci, quando siamo abbastanza lontani incaricate il signor Deck di sparare al carico di polvere sul ponte, quella nave è inutilizzabile».

Non si cura dei volti terrificati dei prigionieri che lo fissano e tantomeno cerca di non guardare nuovamente quello del capitano, che lo ha sconvolto così tanto.

«Metteteli in gattabuia, partiamo non appena siamo pronti», così dicendo si dirige nella propria cabina, con gli ordini che i suoi sottoposti urlano che gli arrivano sempre più lontani alle orecchie.

 

Sono in viaggio ormai da un bel po’ di giorni dopo l’attacco. Vedranno terra tra pochissimo. Sebbene l’incontro con il capitano pirata l’abbia scosso non ha avuto il coraggio di vederlo un’altra volta, hanno però predisposto di vedere coloro sulle quali teste c’è una taglia e dare gli altri alla legge per prendere il compenso che gli spetta.

Non c’è altro da fare, eppure qualcosa gli urla di stare sbagliando, Benjamin sbuffa forte e butta giù un altro bicchiere di rum che i pirati conservavano nella loro stiva. Gli era mancato il bruciore che solo l’alcol di contrabbando riesce a dare. Beve finché non riesce a cancellare l’ansia e la sensazione di star commettendo un errore madornale.

Occhi chiari, chiarissimi gli si parano davanti. Vede un sorriso dolce e la pelle cotta dal sole. Sente rumori lontani di una battaglia e parole che non capisce. Sente una voce famigliare eppure sconosciuta. Vede capelli incendiati dai raggi del sole solo sulle punte e un nome gli balza sulle labbra. Federico.

Benjamin si risveglia con il fiato corto e il cuore che palpita nel petto. Sente piccole goccioline di sudore scorrergli lungo la schiena e la mente finalmente chiara e libera.

Finalmente ricorda, finalmente sa. Come ha potuto dimenticare? Come ha potuto…?

«Capitano», bussa il quartiermastro entrando in cabina, «Siamo in vista di terra. La Virginia ci accoglie»

«Perfetto, preparatevi allo sbarco»

«E i prigionieri? Che ne facciamo?»

Benjamin sente il cuore sprofondargli nello stomaco e la consapevolezza di ciò che sta per accadere lo colpisce in pieno petto.

«Assicurati prima che ci sia qualcuno pronto a registrarli e a darci i soldi che ci spettano. Poi sbarcheremo anche loro»

Il quartiermastro esce con un cenno del capo lasciandolo nuovamente da solo. Benjamin si butta giù dalla brandina con troppa foga. Il rum che ha bevuto la sera prima non ha di certo aiutato, ma non si può far fermare da una cosa del genere. Chiama velocemente uno degli uomini e gli ordina di portargli il capitano della ciurma pirata.

L’uomo arriva poco dopo e lui ordina di essere lasciati soli. Si guardano entrambi senza proferir parola, l’altro ha lo sguardo stravolto esattamente come il suo. Il fiato corto e gli occhi pregni di un incomprensibile groviglio di sentimenti.

«Benjamin», dice il pirata con la voce rotta.

«Fede» risponde finalmente Ben facendo un passo verso di lui e liberandolo dalla corda che gli teneva le mani assicurate dietro la schiena. «Scusa, scusa non ti avevo riconosciuto»

Federico scuote la testa con le lacrime agli occhi. Uniscono le fronti e si beano di quel contatto tanto bramato.

«E ora?» chiede Federico in un inglese stentato.

Benjamin ha una matassa di emozioni che sembrano bloccargli il respiro nel petto e riesce a dire solo una cosa: «Adesso devi avere fiducia in me. Ti fidi di me, Fede?»

Federico lo guarda fisso negli occhi grigi che improvvisamente ricorda perfettamente, sorride ed annuisce. «Sì, da quel giorno sul campo di battaglia».

 

 

 



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Fandom: La canzone di Achille
Warning: rating arancione, Patrochille
Prompt: M5, Mors tua vita mea

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Patroclo si acquatta nell’ombra di un cespuglio, le orecchie tese a captare anche il minimo rumore e i muscoli pronti a scattare al primo comando dei suoi riflessi. Il sole è alto in cielo e fa breccia tra le fronde degli alberi che si intrecciano formando un tetto di un verde acceso e invadente.

Achille è rimasto alla grotta di Chirone ad allenarsi, mentre lui ha sentito il bisogno di allontanarsi un po’ per riprendere contatto con sé stesso.

Da quando vivono con il centauro per l’addestramento Patroclo si sente in pace. Il suo animo non è più agitato e in un certo qual modo non teme più per sé stesso e per Achille. Quei giorni sono così sereni che neanche la minaccia di un’intromissione di Teti basta per fare increspare il mare di calma in cui il suo animo galleggia.

Un impercettibile movimento a qualche mentre di distanza fa destare tutti i suoi sensi. Patroclo prende un respiro silenzioso e lo trattiene nei polmoni. Incocca la freccia e sente l’impennaggio adagiarsi sulla sua guancia. Può distintamente percepire lo sfregamento delle piume sulla pelle ancora morbida, inconsciamente posa le labbra sulla mano ferma nonostante lo sforzo di tenere teso l’arco.

Spinge lo sguardo oltre gli ostacoli che le foglie rappresentano in quel momento ed oltre i raggi di luce che cadono sul terreno coperto di fogliame. Finalmente ciò che fino a quel momento è stato solo un movimento leggero di rami si palesa in ciò che è davvero. Un cerbiatto gli mostra ignaro il suo fianco coperto di peluria morbida, marrone come il tronco di un giovane albero, con flessibilità di un ramo di ulivo. Non lo ha sentito, coperto com’è dal fruscio naturale che c’è sempre nel bosco.

Patroclo attende. Non si lascia prendere dalla fretta di portare a termine il compito. Assaggia ed assapora tutto come se fosse l’ultima volta che può permettersi una calma del genere. Come se non gli sarà mai più permesso di galleggiare in quel mare di calma dove tutto è al suo posto. Quello spazio in cui Achille lo aspetta alla grotta che è diventata casa e lui può permettersi di passare la mattina nel bosco a cacciare senza la paura di perderlo e non ritrovarlo più al suo ritorno.

Il cerbiatto fa un passo avanti ed entra perfettamente nel suo campo d’azione. Patroclo calcola la distanza e la libertà di azione che avrà il cerbiatto nel momento in cui percepirà il pericolo e si renderà conto di essere preda.

Mira al collo, sperando di dargli una morte veloce. Rilascia un respiro silenzioso e lascia andare delicatamente la presa. La freccia viene scagliata perfettamente dritta nel punto in cui lui ha mirato.

L’impennaggio gli graffia la gota soffice e un sibilo si perde nell’aria. La preda lo guarda un attimo intimorita e nonostante la distanza Patroclo riesce a percepire il terrore e la consapevolezza nei suoi occhi.

La freccia si conficca nella carne tenera del collo facendogli emettere un verso strozzato. Il cervo fa un altro paio di passi involontari, saltando scompostamente in avanti e poi stramazza a terra.

Patroclo esce veloce dal suo nascondiglio, l’arco in spalla e un piccolo pugnale tra le mani. Corre veloce con i calzari che producono un rumore ovattato sul terreno, l’unico che si ode in quel momento in cui la morte è giunta nel bosco.

Lo vede immobile a terra, con gli occhi sbarrati e la gamba che ancora scalcia autonomamente. Si accovaccia accanto alla preda che ha appena atterrato e lo fissa negli occhi grandi, neri e profondi. Sembrano mostrargli direttamente l’abisso del Tartaro.

«Artemide Elaphêbolos – dice alzando gli occhi al cielo – proteggi questo animale e donagli riposo eterno, fa che la sua carne sfami me che sono un tuo umile servitore e ho posto fine alla sua vita per fa sì che la mia continui»

Senza attendere oltre Patroclo affonda il pugnale nella carne, assicurando la morte alla preda che quel giorno ha incontrato il suo arco. Pulisce il pugnale sulle vesti e rimane a fissare il corpo esanime dinanzi a lui. Se non fosse per il sangue che inizia a bagnare il pelo immacolato del collo sembrerebbe quasi addormentato.

Osservandolo capisce che è un giovane cervo quello che ha ucciso. Un principio di corna gli spunta sulla testa facendo capolino tra il pelo chiaro. Patroclo gli accarezza la testa, pensando al a come quelle corna sarebbero potute diventare grandi e maestose se solo non avessero incontrato la sua fame e la sua necessità di sfamare lui e Achille.

Patroclo, così come ogni uomo che si appresta ad assumere il proprio ruolo nella società, ha già imparato che la morte è solo un modo per restare in vita. Chiunque sia stato addestrato alle arti della caccia o del combattimento sa che l’inflizione dell’ultima agonia non è che la disperata ricerca di continuare a vivere.

Solo in questo modo il guerriero può diventare eroe, solo in questo modo il cacciatore può sperare che il suo gesto non sia di offesa alla dea.

La morte di uno è accettabile e sacra solo se di aiuto alla vita dell’altro.

«La tua morte, la mia vita», ripete tra sé e sé Patroclo mettendosi sulle spalle la carcassa inerme.

Si dirige alla grotta con l’animo che ancora galleggia in un mare di tranquillità, privilegio che è concesso solo a chi ha il cuore puro e la mente libera.

Quando si trova abbastanza vicino la grotta da udire il suono dei calzari di Achille che scattano sul terreno durante l’allenamento, un sorriso gli si dipinge sul volto giovane e accelera il passo, andando incontro al suo amico e compagno.

Lascia il cervo sull’uscio della grotta e gli va incontro. Achille si accorge immediatamente di lui e si volte rivolgendogli un sorriso gemello.

«Ho portato da mangiare», lo informa Patroclo.

«Arrivo» gli risponde con la pelle lucida di sudore e i capelli lunghi e biondi attaccati alla fronte e al viso e Patroclo mette un altro tassello negli insegnamenti che gli riserva la vita durante la crescita.

A volte la vita di un uomo dipende da quella di un altro in modi e maniere che i più non riusciranno mai a capire, perché a loro non è stato concesso il privilegio di quella conoscenza. A lui è stato concesso non solo il privilegio di comprendere e assorbire che dalla morte di uno dipende la vita di un altro, ma anche l’esatto opposto e nonostante questo sia spaventoso e impenetrabile, gli ha concesso di sentirsi un passo più vicino agli dei e di questo ne è grato.

Achille lo supera e gli sfiora la mano mentre si dirige verso la grotta. Patroclo si prende un istante per bearsi della vista delle sue spalle, poi lo segue.

 





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Fandom: Ribelle - The brave
Warning: Hogwarts!AU
Prompt: M5, Quisque faber fortunae suae

Questa storia partecipa al cowt10 di Lande di Fandom



Merida sta addentando un buonissimo dolcetto preparato appositamente dagli elfi domestici di Hogwarts quando un gufo plana sul tavolo dei Grifondoro con in bocca in una lettera. Alza gli occhi al cielo e prende la missiva che l’animale gli sta porgendo.

Almeno non è una strillettera, pensa tra sé e sé aprendola.

La legge dapprima velocemente, ma arrivata verso la fine la sua mente le dice che non è possibile ciò che ha letto, non di nuovo. Così rilegge nuovamente e si rende conto che non c’è stata nessuna incomprensione. I suoi genitori la stanno richiamando nel bel mezzo del suo quinto anno ad Hogwarts per diventare finalmente una principessa e prendere il posto nel mondo a cui è destinata.

«Ntz, quante sciocchezze. Non mi sposo neanche per tutto l’oro dei folletti», dice accartocciando la lettera.

Si alza con l’animo nero e si dirige verso la sala comune Grifondoro ha assolutamente bisogno di sfogarsi e nulla la aiuta come il quidditch, spera che il campo sia libero e riesca a convincere l’insegnante di volo a farla allenare anche fuori orario.

La sua marcia rabbiosa verso la sala comune viene però interrotta dalla capo casata, la professoressa di volo per l’appunto che la intercetta nei corridoi.

«DunBroch, stai andando a preparare il baule?»

Merida alza un sopracciglio. «In che senso?»

«I tuoi genitori sono ora nell’ufficio del preside, stanno parlando per farti tornare a casa ed assolvere i tuoi compiti di principessa».

«Cosa?»

Merida sente la rabbia ribollirle nelle vene e le mani stringersi in pugni attorno la sua divisa. Non possono farlo, non senza il suo volere.

«Posso raggiungerli?», chiede furente alla professoressa che la accompagna dinanzi l’ufficio del preside, neanche lei ha intenzione di lasciare andare quella ragazza promettente per lasciarla in pasto ad un destino che non è il suo.

Merida aspetta di trovarsi dinanzi l’ufficio del preside con lo stesso animo con cui molte volte scende nel campo da quidditch. Gli occhi sono ridotti in fessure e il cuore è agitato. Non appena si trova la porta davanti bussa forte ed entra quando sente la voce del preside che le indica di farsi avanti.

I suoi genitori sono dinanzi la scrivania, indossano entrambi le vesti ufficiali con le quali accolgono i membri del clan, ed ovviamente le immancabili corone.

«Merida, prego», le fa cenno il preside di sedersi. Lei ubbidisce senza prestare la minima attenzione ai suoi genitori.

«Tua madre e tuo padre mi stavano spiegando qual è il tuo ruolo ed il motivo per cui non puoi continuare gli studi da noi, nonostante la tua promettente propensione per il quidditch e la difesa contro le arti oscure».

«Io non ho intenzione di andarmene», afferma con serietà e decisione guardando finalmente il padre e la madre negli occhi.

«Merida, tu non sai cosa stai dicendo. È per il tuo futuro».

«Quello non è il mio futuro, io non lo voglio un futuro così».

«Merida, hai solo quindici anni non sai cosa vuoi. Questo ti garantirà di avere una casa ed un marito e…»

«Mamma questi i tuoi sogni. Io non lo voglio. Io voglio giocare a quidditch nel fine settimana e diventare Auror, mi professori dicono che posso farcela perché tu sei l’unica che non lo vede?»

«Questa cosa non è in discussione. Non permetterò che mia figlia butti all’aria il suo futuro»

«E tu invece mamma, che stai sacrificando la mia felicità per la tua mente ristretta?»

Merida si è alzata in piedi scansando rumorosamente la sedia senza rendersene conto. Respira affannosamente e il viso solitamente pallido si è macchiato di rosso per la rabbia.

La regina Elinor la guarda con sufficienza come si guarda un bambino che fa i capricci. «Adesso calmati. Una principessa non si comporta in questo modo»

«Io non sono una principessa, mamma. Non solo, almeno»

Il preside che fino a quel momento ha lasciato che la ragazza si sfogasse richiama le attenzioni di tutti e tre con un leggero colpo di tosse.

«Mi sembra palese quali siano i desideri di vostra figlia e sebbene non abbia ancora raggiunto la maggiore età per decidere per sé stessa mi sento di consigliarvi caldamente di ascoltarla. Un futuro di felicità incerta è più appetibile di uno con certa infelicità»

Il re Fergus finalmente prende parola. «Cara, forse dovremmo ascoltarla e lasciarla scegliere per sé stessa…»

«E lasciarla rovinarsi con le sue stesse mani? Non posso permetterlo»

«Se mi è concesso, regina Elinor, il compito di un genitore è quello di guidare il figlio lungo la strada che si sceglie egli stesso. Non è forse degna di lode vostra figlia che in così giovane età già mostra doti spiccate per ciò che più le aggrada?»

«Non sto mettendo in dubbio il valore di Merida, voglio solo che non vada sprecato»

«Lei non pensa che invece andrà sprecato proprio nel modo in cui lei vuole ingabbiarla e incatenarla? D’altronde Merida ha un carattere forte che ingabbiato potrebbe rivelarsi fatale per il suo temperamento»

Elinor guarda il preside a lungo, cercando di trovare il modo di mettere da parte il proprio orgoglio e le proprie idee.

«Madre, non importa quanto possiamo influenzare qualcuno, ogni individuo è l’unico responsabile di ciò che gli accadrà. Permettimi di scegliere da sola la mia vita e il mio destino».

Elinor la guarda con gli occhi stretti e lo sguardo che tenta di leggerle dentro. Dopo pochi istanti rilassa lo sguardo e stringe la mano di suo marito.

«Come faremo con i capi clan?»

«Ci penso io, cara»

Alzando un sopracciglio e guardando il preside Elinor allora annuncia: «Mia figlia ha deciso di provvedere ella stessa al suo destino, così come io ho provveduto al mio quando avevo la sua età. Quindi potrà restare in questa scuola».

Merida sopprime un grido di felicità che le viene direttamente dallo stomaco.

«Mi scuso per il disturbo arrecatole», conclude la regina alzandosi imitata dal marito. «Ci vediamo durante la pausa estiva, tesoro?»

Merida annuisce. «Grazie signor preside»

Il preside annuisce bonario e li congeda.

Una volta fuori, Merida abbraccia di slancio i suoi genitori. La regina Elinor le accarezza i capelli aggrovigliati. «Ci vediamo alla pausa estiva quindi?»

«In realtà, mamma, domenica giochiamo una partita molto importante. Mi piacerebbe che tu e papà veniste a vedermi».

Re Fergus si apre in un sorriso benevolo. «Ci saremo di sicuro, tesoro»

Elinor sorride ugualmente. «Verremo a fare il tifo per te».

Merida accompagna i genitori ai cavalli che li hanno condotti sino ad Hogwarts e li guarda andare via verso l’orizzonte.

Finalmente ha ottenuto ciò che più desiderava. Essere - lei e solo lei -  padrona del proprio destino.

 



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