I'm blue

Apr. 2nd, 2019 05:07 pm
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Fandom: Originale
Warning: Songfic su I'm Blue degli Eiffel 65
Rating: Verde
Prompt: Missione 6, colori, Blu

Questa storia partecipa al cow-t9 di Lande di Fandom







Yo listen up, here's the story
About a little guy that lives in a blue world

 

 

Ogni mattina si alza alla stessa ora, guarda la stessa sveglia e si ritrova nella stessa camera. Scosta le coperte azzurre, si stropiccia gli occhi e si mette a sedere, infilandosi le ciabatte blu.

Va al piano di sotto, si versa del latte e ci tuffa dentro dei cereali ai mirtilli, di un colore blu così intenso che spesso si fissa a guardarli.

Alza lo sguardo e la luce blu del sole illumina il salotto dalle tinte celesti.

Finita la colazione va in bagno, si fa una doccia e si avvolge nell’accappatoio blu notte, si lava con la spugnetta acquamarina e poi esce rinfilandosi le ciabatte blu che ha lasciato sul tappetino azzurro.

Si lava i denti con lo spazzolino ceruleo e si pettina i capelli blu elettrico, con la spazzola dello stesso colore.

Si veste, scegliendo se indossare la camicia celeste o celeste chiaro o celeste scuro e l’abbina ad un paio di jeans slavati.

Prende la borsa da lavoro cobalto e accende la sua Corvette blu e va a lavoro, in un grattacielo così alto che sembra toccare il cielo azzurro, ricoperto da milioni di finestre azzurre che riflettono tutte le tonalità di blu di cui è composto il mondo.

 

And everything is blue for him
And himself and everybody around

 

È questo che sta spiegando al ragazzo seduto davanti a lui in quel momento. Lo ha trovato sulla via di ritorno verso casa e gli è sembrato da subito strano. Così strano che ha qualcosa lo ha spinto a fermarlo e a chiedergli perché fosse così diverso.

Il punto non è la sua forma ma il suo colore. È di un colore che non è blu, questo lo riesce a vedere, ma che non saprebbe dire cos’è.

Oltre a questo, a renderlo così strano, non è solo il fatto di non essere di nessuna tonalità di blu conosciuta, ma è anche il fatto di asserire di non conoscere il blu.

«Come puoi non conoscerlo? Il sole è celeste. Quell’albero è pervinca. Io stesso sono blu, come fai a non sapere cos’è il blu?»

Cerca di fargli vedere ancora il blu dei nontiscordardime e quello delle genziane ma lui non lo vede e li chiama con altri nomi.

Lo guarda piegando la testa da un lato, cercando di capire se lo sta prendendo in giro o se semplicemente sta parlando con un cieco ma il ragazzo sembra vederci bene, sbatte le palpebre e lo osserva.

Chiama sé stesso con una parola che non conosce, gli dice che è un colore ma non è blu e lui non sa che cosa sia.

Non esiste nel suo mondo una cosa con quel nome.

Non esiste quella parola nel suo vocabolario. 

 

Blue are the words I say and what I think
Blue are the feelings that live inside me

 

 

«Posso toccarti?» gli chiede il ragazzo dal colore indefinito.

Sente di avere paura, perché dovrebbe farsi toccare da qualcosa che non ha un colore?

Eppure, i suoi occhi incolori sembrano sinceri e per nulla minacciosi. Sembra stranito esattamente come lo è lui e qualcosa all’interno della sua anima cobalto gli dice di fidarsi.

Annuisce e lo osserva attentamente mentre alza un dito e gli tocca il viso.

Se chiudesse gli occhi, non gli sembrerebbe una cosa così strana, direbbe che esiste così come esiste lui e il suo mondo blu.

E allora perché non esiste il suo colore?

Perché non riesce a vederlo se invece può toccarlo?

Sarà forse che il mondo non è solo blu?

Sarà forse che la sua mente può vedere solo determinate cose e non la totalità? O meglio, la verità?

 

E nel momento stesso in cui questo pensiero prende forma nella sua mente gli sembra di aver afferrato qualcosa, come un pensiero profondo e rivelatore che però gli sfugge subito.

Confuso si alza e salutandolo si allontana, per tornare al suo mondo dalle sfumature blu e i riflessi celesti, non accorgendosi che ormai non è più tutto blu.

C’è un punto, sulla sua guancia che è di un colore nuovo che forse non riuscirà mai a vedere.

 

'Cause he ain't got nobody to listen

 



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Fandom: Bon jovi
Warning: Slash
Prompt: Missione 9, Euterpe: musica

Questa Storia partecipa al cow-t 9 di Lande di Fandom





Richie ha gli occhi chiusi e la chitarra in braccio, le sue dita leggere pizzicano e sfiorano le corde creando un suono tenue e cadenzato.

Accompagna la melodia con la testa e batte un piede a tempo. Si perde completamente nel flusso di luci e colori che la musica crea nella sua testa.

È un susseguirsi di pennellate di luci colorate, come se qualcuno stesse dipingendo dentro la sua testa. In questi momenti si sente completamente calmo e rilassato, quasi come se fosse in una dimensione lontana da quella in cui vive di solito.

Si estrania dal suo corpo e la musica gli appare davanti.

Ha lunghi capelli biondi la sua musa, sono sottili come raggi di luce e intrecciati in fiori candidi che le adornano la fronte.

La pelle è candida e si tende sul collo lungo per poi rilassarsi sul seno prosperoso. Richie la vede sempre, ogni volta che tocca la sua chitarra.

Suona per lei e lei lo ascolta, lo aiuta quando non riesce a trovare l’accordo perfetto, lo consola quando non ha la forza di suonare e gli culla il cuore confortante.

«Non ti preoccupare andrà meglio», gli dice lei con la voce soave al termine di una serata andata male.

«Ci sono io qui con te», gli ripete ogni volta che si sente solo.

«Sei molto più di quel che credi, non sarei qui altrimenti», gli sussurra all’orecchio quando i suoi pensieri sono troppo critici e duri.

Richie ha imparato a parlarle e ad ascoltarla, a venerarla e ad essere adulato da lei. Non è riduttivo dire che si è innamorato della sua bella musa e ha continuato a nutrire quell’amore giorno dopo giorno, accordo dopo accordo, per tutta la sua vita fino a quel momento.

Per questo e per altri motivi che non vuole approfondire, la fronte di Richie si corruga improvvisamente andando a rovinare la sua espressione pacifica non appena la vede mutare sotto i suoi occhi.

Gli occhi gentili della dea si tramutano in due occhi affusolati, segnati da una matita nera che li rende ancora più lunghi e sfuggenti. Il colore limpido e cristallino del suo sguardo si fa un poco più torbido e pieno, come se ad un tratto il torrente nel quale si stava specchiando si fosse ingrossato, diventando un fiume in piena.

I lineamenti delicati del suo viso si trasformano e si induriscono, la mascella diventa più pronunciata le labbra dapprima delicate come un bocciolo somigliano adesso ad una rosa di una bellezza quasi violenta.

La pelle si è scurita, non è più diafana non sembra più ultraterrena, adesso ha quella bellezza che hanno le cose consumate ed usate troppe volte. Quella bellezza resiliente che deriva dall’impregnarsi di qualsiasi cosa la vita metta sul nostro cammino, non importa quanto questo ci renda imperfetta e ci macchi.

I capelli non sono più raggi di luce intrecciati a fiori, hanno adesso il colore del grano in estate è un giallo vivo, acceso che richiede di essere notato e dal quale Richie non riesce a togliere gli occhi di dosso.

Si spaventa quando si rende conto che davanti a lui, la sua bellissima e delicata Musica si è trasformata in qualcuno che lui conosce bene, che nell’ultimo periodo ha desiderato di conoscere molto meglio.

Le dita continuano imperterrite a suonare ma adesso non si sente più calmo, non è più rilassato.

Dov’è la sua bella musa che lo confortava nei momenti grigi?

«Dove sei? Dove sei finita?», grida cercandola nel mondo fatto di colpi di pennello e di luci colorati.

«Torna, per favore, torna», la supplica guardando verso l’alto, sperando di vederla ridiscendere scivolando su una tenue melodia.

«Perché mi hai lasciato?» domanda lamentoso, mentre con le ginocchia a terra graffia il terreno con le mani.

«Non mi riconosci più», dice il ragazzo che ha preso il suo posto, mettendosi proprio davanti a lui, con i piedi scalzi che entrano nel suo campo visivo.

«Tu non sei lei», dice debolmente.

«Perché pensi che non possa essere lei?»

«Perché lei è la mia musa, è colei che mi ha fatto arrivare dove sono, colei che mi ha preso per mano e mi ha insegnato cosa posso fare, colei che me lo ricorda quando inciampo di nuovo. Tu… Tu invece… Non sei lei».

«Cosa sono secondo te?»

Richie alza gli occhi e lo guarda dal basso, vede i suoi occhi mutevoli e di un azzurro torbido, vede le sue labbra semi aperte, come una ferita tagliata sul volto e se ne sente attratto così visceralmente che ne ha timore.

«Tu sei solo una fantasia del mio corpo e della mia libido, tu non sei nessuno. Esci dalla mia testa. Almeno quando suono, esci dalla mia testa».

«Come posso uscire dalla tua testa se sono io la tua musica».

Lo stomaco gli si stringe a quell’affermazione perché è esattamente ciò di cui ha paura, è esattamente ciò che teme. Non vuole che la sua figura infetti anche la sua musica.

«Perché non mi lasci in pace? Perché mi torturi in questo modo?» glielo chiede con rabbia e con la voce che gli graffia la gola e una lacrima che scende cocente lungo la sua guancia.

«Sai qual è il tuo problema, Richie?» comincia piegandosi sulle ginocchia e mettendo i loro sguardi sullo stesso piano. «Tu dai la colpa di tutto a lui, ma non ti rendi conto che qui siamo nella tua testa, nel tuo mondo e la sua figura non è altro che un prodotto del tuo cuore».

Richie lo spinge con forza e cadono uno sopra l’altro rotolando un paio di volte, si fermano quando Richie si trova su e lo atterra, con le braccia ai lati del suo viso e i capelli lunghi che scendono verso di lui.

«Ti stai impegnando così tanto a reprimere ciò che senti con il corpo che hai infettato anche ciò che senti con il cuore e con l’animo. Non ti libererai mai più di lui».

Richie si ritrae come se si fosse appena scottato, si allontana dalla figura con il viso confuso e ferito, ma anche sfinito.

«Ti vedrò sempre adesso? Vedrò sempre te? Lei non tornerà più?»

Il ragazzo si alza e si avvicina si nuovo a lui. La sua nudità gli fa seccare la bocca.

«Non lo hai ancora capito, Rich? Ormai io sono lei e visto che mmi sembra che vuoi continuare a suonare vorrà dire passeremo un sacco di tempo insieme».

Richie si arrende al suo tocco e si abbandona al bacio che gli imprime sulle labbra.

La sua bella musa se né andata e l’ha lasciato con un ragazzo magro e dannatamente sensuale.

Non lo ha voluto.

Non lo ha cercato.

È arrivato e si è preso il posto che voleva senza che lui avesse voce in capitolo.

La sua unica libertà d’azione è sfruttare la sua immagine e l’effetto che ha su di lui, per continuare a produrre musica, quella stessa musica che tanto piaceva alla sua bella musa.

 



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Fandom: RPF Storici
Pairing: Donatello x Cosimo de Medici
Rating: Verde
Prompt: Missione 9, le muse, Clio: storia

Note: C'è un'inaccuretezza storica circa la costruzione di Palazzo Medici, che qui è già presente ma che in realtà viene costruito da Michelozzo nel 1444

La storia partecipa al Cow-t 9  di Lande di Fandom





Firenze, 1428 ca.

 

Donatello piega la testa di lato. Ha la fronte corrucciata e l’espressione cupa.

Il mezzo busto davanti a lui gli restituisce uno sguardo attonito. Nell’espressione che gli ha conferito c’è qualcosa non lo soddisfa a pieno. Non gli restituisce l’intenzione che voleva donargli all’inizio.

I suoi apprendisti sanno che in quei momenti non vuole essere disturbato da nessuno e che ha bisogno di tutta la concentrazione che gli è stata concessa. Per questo batte forte la mano sul tavolo da lavoro facendolo scricchiolare quando Bertoldo entra nella bottega attirando la sua attenzione.

«Scusa, maestro».

«Bertoldo, ringrazia il fatto che tuo padre mi paga bene per la tua educazione. Che vuoi?» ha il tono duro e il piccolo allievo lo guarda con gli occhioni da bambino sgranati.

«Non essere duro con lui, Donato. Gli ho detto io di venire ad avvertiti».

Michelozzo, suo socio e collega da anni, entra nella stanza mettendo una mano sulla spalla del ragazzino che lo guarda grato.

«E tu ringrazia che mi trovi bene a lavorare con te…»

«E tu che ti aiuto a tenere su questa baracca. Senza di me daresti soldi a chi li deve a te e viceversa», lo ammonisce l’amico.

Donatello gli risponde scuotendo una mano a mezz’aria, come a voler allontanare quelle polemiche da lui.

«Che c’è? Perché siete venuti entrambi?» chiede di nuovo, questa volta riacquisendo lo sguardo gentile che ha di solito, senza però sorridere.

«Sta arrivando Cosimo de’ Medici. Ha mandato un paggetto ad avvertirci».

Donatello si mette subito con la schiena dritta. Non è raro che Cosimo lo vada trovare in bottega, anche se impegnato com’è nell’ultimo periodo non è riuscito a passare spesso.

Si alza e va automaticamente verso la superficie riflettente, aggiustandosi la barba.

Sente Michelozzo fare un verso rassegnato ed uscire dalla stanza. «Come se Cosimo de’ Medici fosse davvero interessato a come porti la barba…» lo rimbecca.

Donatello non risponde ed essendo soddisfatto del proprio aspetto si rimette a lavorare, ma in realtà la sua mente non è concentrata sull’opera, bensì sul rettangolo chiaro della porta che lascia intravedere l’entrata della bottega.

«Maestro», la voce di Bertoldo è tenue e poco più alta di un sussurro. Donatello porta lo sguarda sulla sua figura esile, mentre tra le mani stringe qualcosa.

«Che c’è, Bertoldo?» chiede con il tono bonario e gentile.

L’allievo alza lo sguardo e notando che nel suo volto non c’è fastidio, si avvicina. «Ho finito la medaglia che mi hai dato da fare. Va bene?»

Donatello sorride appena e poi prende tra le mani il discetto di metallo che il piccolo gli stava tendendo.

È un metallo povero quello che usano per far allenare gli allievi più piccoli, è morbido ma si sfalda facilmente. Nonostante questo Bertoldo è riuscito a fare l’immagine che lui gli ha indicato: il giglio simbolo della loro città.

«Qui dovevi usare l’altro punteruolo, quello con la punta più appuntita», gli dice indicando un punto non proprio precido dell’incisione. «Ma sei stato bravo, Bertoldo. Diventerai un ottimo artista se continui così», lo gratifica scompigliandogli i capelli con un sorriso bonario, mentre il bambino lo guarda con grandi occhi felici.

«Grazie, maestro».

«Saresti un buon padre, lo sai?»

La voce con la quale è stata pronunciata quella frase la conosce bene ormai da anni e la riconoscerebbe tra milioni di altre.

La sua figura esile è messa in risalto dalla luce del primo pomeriggio che viene da fuori e il portamento regale contribuisce a renderlo quasi un’apparizione ultraterrena ai suoi occhi.

«Tu ci hai creduto quando te l’hanno detto?»

Cosimo ride e fa qualche passo avanti, in modo da essere illuminato non solo dalla luce che viene dalla strada dietro di lui ma anche dalle lanterne e dalle candele presenti nella bottega.

«Se continuano a dirmelo tutti sarà vero».

«Oppure sarà vero che hanno tutti timore che li mandi sul lastrico».

Cosimo ride ancora, con quella risata cristallina che gli fa sempre fermare il cuore nel petto e Donatello si unisce a lui dopo qualche istante.

«Chi è il giovane artista?»

«Lui è Bertoldo di Giovanni, un mio allievo», dice mettendo una mano dietro la schiena del bambino che gli si era fatto vicino. «È molto abile, diventerà un bravo artista».

«Ne sono certo».

Bertoldo sorride compiaciuto del complimento appena ricevuto.

«Lui invece è Giovanni, mio figlio», dice Cosimo presentando il bambino che fino a quel momento era stato attaccato alle sue vesti, quasi a volervi scomparire dentro. «Che ne dici di fargli vedere com’è la bottega del grande maestro Donatello?» chiede rivolgendogli un ultimo sguardo per essere certo che fosse s’accordo con la sua proposta.

Donatello annuisce e Bertoldo porta Giovanni nell’altra stanza.

Rimasti soli, Donatello continua a guardare Cosimo girare per quella che è la sua stanza da lavoro nonché la propria casa.

Lo vede piegarsi verso i disegni preparatori e analizzare schizzi e bozzetti.

Rimane sempre affascinato dal modo in cui Cosimo de’ Medici riesce ad essere perfettamente a suo agio in ogni situazione e in ogni luogo.

Il Medici si volta e lo guarda interrogativo, chiedendogli tacitamente spiegazioni per il suo sguardo fisso.

«Stai cercando qualche altra mia opera da vendere a qualche mercantucolo

«Io non vendo proprio nulla. Faccio solo conoscere le opere eccelse di un artista scorbutico a chi può permettersele».

«Oh, sei un benefattore quindi».

«Mmm… Non è quella la parola giusta», continua senza guardarlo. «A che punto sei?» domanda infine riportando lo sguardo chiaro su di lui.

Donatello indica il mezzo busto dinanzi a lui. «È praticamente finito, anche se c’è qualcosa che non mi convince».

Cosimo si avvicina all’opera e quindi a lui, più di quanto Donatello si fosse aspettato.

«È bellissimo», valuta con il tono leggermente trasognato.

«Sei sicuro?»

«Fidati di me. Di arte me ne intendo più di te».

Ridono di nuovo.

Ridono sempre un sacco quando sono insieme. O meglio, Donatello sente di ridere molto di più quando Cosimo è nei paraggi. È una cosa che gli viene spontanea, quando sente l’altro ridere e lo vede portare gli zigomi verso l’alto andando a racchiudere gli occhi in due mezzelune, non riesce a far altro che imitarlo.

A volte si rende conto che non c’è neanche un motivo per ridere, ma ha davvero importanza?

È davvero così importante avere un motivo per ridere quando è così spontaneo farlo?

«Allora lo lascerò così, se ti piace».

Cosimo annuisce con convinzione. «Domani messer Arrighi sarà domani a casa mia nel pomeriggio. Porta lì la tua opera, di sicuro potrà apprezzarla meglio alla luce del cortile, rispetto alla cripta buia nella quale lavori».

«La luce soffusa mi aiuta a concentrarmi», risponde semplicemente. «Sarò domani da te nel pomeriggio, allora».

Cosimo annuisce. «Hai fatto un ottimo lavoro», dice stringendogli una spalla e sorridendo appena.

Il volto di Donatello si illumina di compiacimento per il complimento appena ricevuto. «Ci vediamo domani», ribadisce quando Cosimo esce dalla sua bottega tenendo Giovanni per mano.

 

 

 

Donatello esce dalla bottega con un paio di suoi apprendisti che lo aiutano a portare l’opera richiesta.

Il cielo è chiaro e a Firenze le strade sono gremite come sempre in quell’orario, soprattutto nei pressi di Palazzo de Medici.

Si sente tranquillo in quel momento, alla sua età non ha più timore di ciò che gli altri possono dire sulla sua arte. Prima di tutto perché molte delle persone che stima e che ritiene avere una certa autorità nel campo dell’arte, apprezzano le sue opere; ed in secondo luogo perché ha imparato che la gran parte dei nuovi acquirenti che Cosimo riesce a trovargli sono più preoccupati di accostare il proprio gusto al loro che a comprare effettivamente qualcosa di valore.

Son fortunati che Cosimo sia uno dei pochissimi uomini che anche senza far arte, ne capiscono molto più di alcuni così detti artisti.

La porta di Palazzo de Medici si spalanca sul cortile interno. Ci sono alcuni servi ad attenderli e a portarli nel luogo designato da Cosimo, che non avrebbe potuto essere presente per un imprevisto improvviso riguardante il suo lavoro.

Donatello attende pochi minuti prima che il mercante in questione si faccia vivo.

«Lei deve essere Messer Donato, sono Benedetto Alberti», dice presentandosi con un sorriso falso e di circostanza.

«Piacere di conoscerla. Se mi vuole seguire, ho fatto predisporre l’opera in un luogo dove possiamo meglio apprezzarla».

«Non aspettiamo Messer Cosimo?» chiede l’uomo con una certa titubanza nella voce.

«Purtroppo Cosimo non potrà esserci per un inconveniente improvviso».

La delusione dell’uomo è palpabile. Strano che un mercante non riesca a mascherare la sua delusione, non deve essere molto esperto, o non deve ritenerlo abbastanza importante da usare gli espedienti del suo lavoro.

Donatello ha fatto disporre il mezzobusto su un cornicione di uno dei grandi corridoi terrazzati di Palazzo de Medici, di modo che il sole pomeridiano lo illuminasse in modo tale da mettere in risalto l’espressione che gli ha donato.

Giungono davanti l’opera dopo un numero di scale che ha stancato di molto il mercante e non troppo Donatello, abituato com’è a visitare casa Medici.

Il mercante lo osserva dapprima assorto, poi sempre più concentrato. Così tanto, che per Donatello è palese che stia mettendo su una pantomima per fargli credere di intendersi d’arte.

«Ho visto questo tipo di materiale durante uno dei miei viaggi verso Oriente. È di difficile reperibilità, vero? Sono certo che messer Cosimo lo ha fatto arrivare apposta per farvelo lavorare», dice compiacendosi sottintendendo che Cosimo l’avesse fatto arrivare apposta per la sua opera.

Donatello alza un sopracciglio e lo ascolta con le braccia incrociate, curioso di vedere fin dove si sarebbe spinto.

«È bronzo», dice infine. «Lo lavoro spesso», continua con la voce atona ma lo sguardo scettico.

Il mercante si rimette eretto dalla posizione che aveva assunto per esaminare meglio l’opera.

«Capisco. Quanto volete per quest’opera in bronzo?»

«Quaranta fiorini, messere».

Il mercante davanti a lui sgrana gli occhi lentamente, così tanto che Donatello quasi crede che gli sarebbero caduti dalla testa.

«Mi sembra un prezzo esagerato per una semplice opera i bronzo, messere».

«Un’opera in bronzo che lei ha scambiato per un pregiato materiale orientale se non sbaglio. La lavorazione è stata a dir poco meticolosa».

«E di quanto tempo lei ha dovuto predisporre per terminare questa meticolosa lavorazione se il metallo lo conosceva già e l’opera non è che un mezzo busto?»

Donatello sente una strana rabbia invadergli il corpo. Non gli succede da tempo che a qualcuno non piaccia una sua opera, né tanto meno che si azzardi a sindacare su quanto lavoro ha impiegato per realizzarla.

«Mi pare evidente che lei non si intende di arte».

«Mi pare evidente che lei non si intende di commerci, posso trovare statue esattamente come questa o anche migliori alla metà del prezzo».

Donatello sente l’ira prendere possesso del proprio corpo e della propria mente. Se è riuscito a trattenersi fino a quel momento è solo per il rispetto che nutre nei confronti del luogo nel quale si trovano. Non vorrebbe mai che casa de Medici sia teatro di qualche scandalo di cui parlare durante le feste della nobiltà fiorentina per colpa sua.

«Propongo di chiamare messer Cosimo e farci dire da lui cosa ne pensa, visto che è avvezzo sia ai commerci che all’arte».

Donatello acconsente con un gesto della testa e manda a chiamare Cosimo da uno dei suoi apprendisti che corre velocemente a portare il compito a lui assegnato con un’espressione terrorizzata in volta.

Donatello di solito gliele vede solo quando sono costretti ad interromperlo quando lui ha chiesto espressamente di non farlo.

Il sole sta iniziando a calare e il silenzio diventa palpabile. Donatello sente l’irrefrenabile voglia di lasciare lì il mercante e andarsene a bere del buon vino toscano nell’osteria più vicina, maledicendo chiunque osi ancora parlargli di mercanti, ma non può.

Se quel lavoro non gliel’avesse trovato Cosimo l’avrebbe già fatto, ma non può mancare di rispetto anche lui, così prende un grosso respiro e cerca di mandare giù il fastidio e la rabbia.

Cosimo arriva vario tempo dopo, trafelato e stanco. Donatello lo capisce dalle piccole rughe che gli circondano lo sguardo e dalle sopracciglia che tendono verso il basso, allungando il suo sguardo.

«Benedetto degli Alberti, che piacere vederti qui a Firenze. La città sentiva la tua mancanza», dice Cosimo con un sorriso enorme stampato in viso e l’espressione che sembra aver ritrovato vigore all’improvviso.

«Cosimo, ben ritrovato. Gli affari ti tengono in forma», lo saluta viscidamente l’altro.

Si scambiano qualche convenevole che Donatello si limita ad ascoltare con scarso interesse. Lo vede lontano un miglio che Cosimo non è davvero interessato a ciò che dicono, così come si accorge che i suoi gesti sono affettati, calcolati e privi della spontaneità che Donatello ha sempre apprezzato in lui.

Possibile che l’altro non se ne renda conto?

Anzi, se possibile ad ogni minuto che passa Donatello lo vede più sicuro di sé e più deciso della sua posizione.

Penserà che Cosimo tiene più in conto la sua opinione che quella di Donatello, ma lui lo conosce abbastanza da sapere che il Medici non si fida di nessun mercante e che se potesse si circonderebbe solo ed esclusivamente di uomini di cultura e di artisti, cosa che ovviamente Benedetto degli Alberti non è.

«Allora, hai visto che opera suprema ha realizzato Donato?» dice Cosimo riportando l’attenzione sul mezzobusto e su Donatello stesso.

 Il mercante, che fino a quel momento ha ostentato sicurezza e baldanza, è ora in evidente difficoltà e si limita ad annuire e a balbettare qualche assenso.

«Io apprezzo in particolar modo la linea delle sopracciglia che sembra essere vera, per quanto è espressiva. Non trovi?»

Il mercante annuisce tentando di mascherare invano l’evidente confusione ed ignoranza che lo abitano.

«Di sicuro Donatello ha scolpito dal vivo. Non è così, amico mio?»

Lo stomaco di Donatello si stringe appena quando si sente chiamare con il vezzeggiativo del suo nome davanti ad un estraneo.

Non è insolito che Cosimo lo chiami così, ma di solito avviene quando sono in presenza di amici o quando son da soli.

In ogni caso non lascia troppo spazio all’emozioni e si affretta ad annuire.

«Vedi? È come ti dicevo, Benedetto. È un nuovo tipo di arte che si basa sulla verità. Donato è un maestro in questo», conclude mettendogli una mano sulla spalla.

È evidente che il mercante si trovi adesso a disagio, nonostante cerchi di continuare ad assecondare Cosimo.

Donatello invece inizia a sentire la rabbia scemare. La vista di Cosimo che porta avanti la discussione nell’esatta direzione in cui vuole mandarla, senza avere alcuna difficoltà lo diverte e lo appassiona al tempo stesso.

«Allora, qual è il problema. Perché mi avete fatto chiamare?» chiede infine guardandoli entrambi e riservando l’ultimo sguardo indagatore a Donatello, che vede al fondo del suo sguardo una tacita richiesta di spiegazioni, probabilmente unita ad una vena di preoccupazione, quasi sicuramente nata dall’espressione dell’apprendista che ha mandato a chiamarlo.

«Messer Cosimo, l’opera è senz’altro divina. Il qui presente Donato ha portato a termine senza ombra di dubbio un’opera che pochi altri sarebbero riusciti a portare a termine, ma è appunto un mezzobusto e mi pare poco conveniente il compenso che Donato richiede per esso».

Cosimo si volta verso Donatello che alza un sopracciglio sempre tenendo le braccia incrociate davanti al busto.

«Ho chiesto solo il compenso per il materiale e per il tempo dedicato a plasmarlo, tutto qui».

Cosimo annuisce assorto alle due constatazioni. «Quanto è il compenso che Donato le ha richiesto».

«Quaranta fiorini, messere».

Cosimo sgrana un poco gli occhi e Donatello si perde a guardare la luce del sole che si infrange sul suo viso invecchiato.

«Capisco quale è il suo rammarico, messer Alberti, e lo condivido».

Il mercante ritrova tutto a un tratto la sua spavalderia e si impettisce alle parole di Cosimo de Medici.

Donatello, però, lo conosce da troppo tempo per lasciarsi ingannare da quella che è una delle recite che Cosimo spesso ama mettere su.

«Effettivamente, Donato chiede troppo poco per un’opera di siffatta bellezza e maestria. Per un’opera del genere non è possibile richiedere il compenso solo per il materiale e per il tempo utilizzato per plasmarlo. Bisogna che si paghi anche per l’idea e per l’estro, nonché per l’esperienza e per il nome dell’artista».

Donatello a fatica sta riuscendo a trattenere una risata, dovuta al tono che usa Cosimo quando svela infine la sua recita.

«Io direi che cinquanta fiorini siano il minimo prezzo per questo capolavoro», conclude finalmente con il sorriso convinto, una mano stretta attorno alla sua spalla e gli occhi che sfidano il mercante a controbattere.

«Messer de Medici, ma l’artista conosceva già il materiale e ci saran voluti si e no trenta giorni per portare a termine il tutto. Vorrebbe dire pagarlo più di mezzo fiorino al giorno per un mezzobusto. Mi sembra ovvio che lei valuti più di quel che è quest’artista per amicizia».

Donatello, che ha cercato di tenersi calmo per tutto il tempo, all’ultima frase non riesce più a trattenersi e facendo un passo in avanti, punta un dito sul petto del mercante.

«Lei, messere, sta mettendo in discussione il parere di due uomini che sanno molto più di lei in arte e commerci di quanto lei potrà mai aspirare in una vita intera. Non sta a lei decidere quanto tempo io impieghi per la mia opera né quanta fatica mi è costata per realizzarla così come la vedevo nella mia mente. È evidente però che è riuscito a dimostrarci che lei l’arte non se la merita, così come non si merita il mio mezzobusto».

Così dicendo sposta di lato un braccio, senza mai distogliere lo sguardo dal mercante e urta il mezzobusto che in bilico com’era sul cornicione merlato viene sbilanciato facilmente e cade a terra, evitando per pochissimo qualcuno che passava di lì per caso.

Un silenzio irreale si crea tra i tre, finché Cosimo, evidentemente divertito non attira nuovamente l’attenzione su di sé.

«Niente più opera, niente più diatriba. Direi che la transazione è terminata. Ha perso un’ottima occasione di avere un’opera di Donato, se ne pentirà in futuro glielo assicuro».

Il mercante è visibilmente imbarazzato dalla situazione e dal fatto che Cosimo non ha accennato nemmeno per un attimo a dare la colpa dell’accaduto a Donatello, mentre invece risulta chiaro che è d’accordo sul fatto che è Alberti ad essere in difetto.

«No, aspettate. Perché terminare questa giornata così? Sono disposto a ripagare una seconda opera il doppio di ciò che ha proposto per la prima», dice di slancio.

Cosimo guarda Donatello. «Mi sembra un buon affare», dice semplicemente, ma Donatello non ha nessuna intenzione di dar ragione, né tanto meno a soddisfare qualsiasi richiesta dello zotico che si trova di fronte.

«Mi spiace, ma sono molto impegnato. Non ho tempo per prendere in carico la sua richiesta», risponde altezzoso, creando un’espressione disperata sul volto del mercante ed una divertita, al limite del riso, di Cosimo.

«Eh, gli artisti di questi tempi sono così richiesti. Mi spiace che la sua occasione di avere un’opera tale sia volata giù dalle mura di casa mia», dice Cosimo trattenendo veramente a stento una risata e facendo risollevare l’animo anche di Donatello che sarebbe scoppiato a ridere di lì a poco.

Il mercante li guarda entrambi con occhi di fuoco, prima di andarsene con il mantello svolazzante dietro di lui.

Cosimo e Donatello non riescono neanche ad aspettare di sentire il rumore del grosso portone richiudersi prima di scoppiare a ridere come due bambini in preda a chissà quale euforia.

«Non ci posso credere che lo hai buttato giù davvero», dice Cosimo con il corpo scosso dalle troppe risa.

«Meglio sul pavimento di Firenze che nella casa di uno del genere», risponde Donatello cercando di ricomporsi.

Cosimo gli mette una mano sulla spalla e lo guarda con gli occhi luminosi di allegria, Donatello lo ricambia perdendosi giusto un po’ nella sua espressione.

«Non credo che riuscirò mai più a togliermi di mente la sua faccia quando gli hai detto che non avresti preso in carico la sua commissione, non è abituato a sentirsi dire di no», commenta ricominciando a ridere e Donatello ride con lui. Un po’ per la situazione, un po’ perché ormai sono anni che sente Cosimo ridere e ancora non riesce a non lasciarsi trasportare dal suono prezioso che gli esce dal petto in quei momenti.

Se potesse intrappolerebbe la sua risata in una delle sue statue per riudirla ancora, ancora e ancora ogni qual volta ne avesse bisogno, ma non può, perché la sua arte è troppo statica per riuscire a imprigionare la mutevolezza del tono della sua risata.

Così si limita ad ascoltarla e a lasciarsi trasportare da essa ogni qual volta che può, cercando sempre di farla dilungare all’infinto. Illudendosi che così facendo riuscirà a portarsela per sempre nella mente e nel cuore, anche quando saranno così vecchi da non riuscire più a ridere o quando le loro membra giaceranno inermi in qualche tomba fredda e buia dimenticate da tutti coloro che calcheranno il mondo con passi nuovi.

Promise

Mar. 22nd, 2019 08:23 pm
smile_92: (Default)
Fandom: Urban Strangers
Warning: death of MC, slash, historic!AU
Prompt: Heroic gestures

La storia segue le vicende di Pietro Micca (Alessio) torinese che perse la vita durante l'assedio di Torino nel 1706 ad opera dei francesi

Questa storia partecipa al cow-t9 di Lande di Fandom




Verrua (Torino), 8 aprile 1705

 

L’aria è spessa e densa a causa della terra mossa dall’ultimo colpo che ha buttato giù le mura definitivamente e dalla polvere delle fortificazioni sbriciolate. Ancora si sentono i mattoni cadere e ruzzolare a terra come una cascata incessante. Le grida degli uomini, dell’uno e dell’altro schieramento, si mescolano tra di loro e tra la cacofonia di lame che si incrociano, colpi di baionetta e carne lacerata.

Il Duca di Savoia Vittorio Amedeo II respira velocemente, stanco per le ore di battaglia e agitato per la fine del baluardo di difesa che erano riusciti a mettere su con pochissimo preavviso.

«Dobbiamo andare, Sua Altezza», lo informa uno dei suoi sottoufficiali, «Non possono trovarvi qui, è troppo pericoloso», l’urgenza nella sua voce non rispecchia l’espressione del volto che invece sembra calma e seria.

Vittorio Amedeo si limita ad annuire con convinzione, salendo finalmente sulla carrozza che è venuta a prenderlo non appena l’esito della battaglia è stato chiaro a tutti: Verrua è caduta, la prossima tappa dell’esercito francese sarà Torino.

«Dai l’ordine di ritirarsi, chiunque sia riuscito a salvarsi venga a Torino».

«Sissignore».

«Soprattutto uomini ancora in grado di combattere, sottoufficiale».

L’uomo si porta una mano alla testa e si mette sull’attenti. Ha recepito il messaggio e lo porterà a termine. Il Duca ricambia con un’espressione di uguale determinazione. Riusciranno a respingere i francesi, farà di tutto affinché questo avvenga.

Sale sulla carrozza che riparte a tutta velocità schivando gli ostacoli sparsi ovunque nella città, trasformatasi ormai nel campo di battaglia.

Il cocchiere sprona i cavalli con frusta e parole e lui si lascia andare sul sedile, abbandonandosi appena alla stanchezza che inizia a prendergli le membra ora che l’adrenalina per la battaglia si sta affievolendo.

Perde lo sguardo sull’orizzonte di campi che scorrono veloci che si vede al di là della finestrella, per un attimo e solo per uno, si lascia trasportare dall’ipotesi di non essere insorti contro la Francia dopo l’attacco alle truppe mandate in loro aiuto, forse avrebbe potuto trovare un’altra soluzione, avrebbe potuto risparmiare la vita di moltissimi dei suoi sudditi.

Avrebbe potuto, ma a quale costo?

Quello di vedere Torino e tutto il duro lavoro della sua famiglia cadere nelle mani dei francesi che si erano dimostrati così irrispettosi del loro stesso aiuto? No, non lo avrebbe permesso.

Se la conclusione di tutto ciò che sta accadendo non è altro che il dominio francese sul ducato su cui lui e i suoi antenati hanno buttato sangue, tempo e passione, non permetterà che accada senza aver combattuto fino allo stremo delle forze, finché non potrà dire di aver tentato tutto persino l’impossibile.

A Verrua hanno appena perso, non solo un buonissimo avamposto, ma anche uomini e forse un briciolo di speranza, ma di certo i francesi hanno perso di più – più uomini, più tempo, più speranza – e di questo ne è più che sicuro.

Guarda il suo valletto e con rinnovata forza d’animo gli rivolge il suo ordine. «Scrivi una lettera a mio cugino, voglio che sappia che Verrua è caduta e ci apprestiamo a fare di Chivasso il prossimo avamposto, nella speranza di ritardare ancora l’esercito francese. Esortalo ad arrivare il prima possibile, gli uomini iniziano a scarseggiare».

Il valletto annuisce e frenetico cerca di attrezzarsi come può per scrivere in maniera più chiara ed efficiente possibile nonostante i salti continui della carrozza e l’inchiostro che gli sporca gli abiti.

Il Duca non accenna a proferir parola, la situazione non permette di ritardare la comunicazione di un solo secondo. Hanno bisogno dell’esercito di Eugenio di Savoia al più presto o non riusciranno a fermarli.

*

Torino, 13 ottobre 1705

Il sole è freddo e non scalda la pelle, ma si infrange sui muri chiari di Palazzo Madama trafiggendone le vetrate che sembrano risplendere più del sole stesso.

Alessio preme le mani in tasca, non è ancora iniziato il rigido inverno torinese ma un’aria fresca e rigida tira ogni tanto facendolo rabbrividire appena.

È piena mattina e la città è in fermento, arrivano voci circa il campo che i francesi stanno costruendo a Venaria Reale. Qualcuno dice che i francesi stanno scappando impaurititi dall’esercito del Principe Eugenio che viene in loro soccorso, altri dicono che hanno iniziato a combattere tra di loro, altri ancora dicono che Torino è comunque spacciata e che presto tutti mangeranno baguette a colazione.

Alessio dal canto suo non crede a nessuna di quelle voci. Durante quel periodo di guerriglie e resistenza all’esercito francese ha imparato che agli uomini piace parlare e che le voci si ingigantiscono veloci come il Po quando piove.

Finché il Duca Amedeo II non avrebbe fatto un annuncio ufficiale lui non avrebbe creduto a nessuna delle voci che girano tra i suoi concittadini.

A ridosso di Porta Palazzo è stato allestito un ospedale di campo, dove ci sono tutti quelli arrivati dall’assedio di Chivasso, terminato qualche mese prima.

Molti sono già morti, altri si attaccano alla vita con le unghie e con i denti a costo di patire indicibili sofferenze. Alessio non giudica né gli uni né gli altri, quando la morte arriva l’uomo si rivela per ciò che egli davvero è a prescindere da ciò che è stato in vita.

 

Il forno non dista molto e per le strade strette già si sente odore di pane appena sfornato e brioches. Il profumo lo avvolge e gli riempie il cuore, in tasca non ha molto, la guerra si è portata via anche quello oltre a tanti dei suoi amici e conoscenti.

«Buongiorno, Alessio».

Il fornaio è un uomo anziano, con il viso raggrinzito dall’età e il sorriso coperto da un paio di baffi folti e grigi. «Che ti do oggi?»

«Salve, Carlo», dice sorridendo e ponendo lo sguardo sul banco dove qualche brioches fumante attende di essere comprata e un paio di pagnotte di pane giacciono invitanti.

«Prendo due di queste e…», guarda le monete che ha in mano e ci ripensa, «Facciamo che prendo una brioche e mezza pagnotta».

«Sei sicuro? Oggi vanno a ruba».

«Sicuro, non voglio abituarmi troppo alla bella vita prima della guerra».

«Hai sentito che si dice?»

«Ho sentito tante cose».

«Pare che i francesi si stiano ritirando».

«E perché mai dovrebbero farlo?» chiede scettico prendendo il sacchetto dalle mani dell’uomo.

«Che ne posso sapere io? Ti sembro un francese puzzolente?»

Alessio ride appena. «Nessun francese saprebbe fare il pane come te, Carlo».

«L’hai detto, ragazzo. L’hai detto».

Lo saluta cordiale e gira sui tacchi per tornare verso casa.

Alza lo sguardo verso il cielo celeste chiaro, vorrebbe davvero che i francesi se ne tornassero al di là delle Alpi, ma sa anche che non funzionano così gli assedi e che se si sono spinti fin lì non rinunceranno molto presto.

Lascia che lo sguardi si sposti lungo le stradine torinesi, soffermandosi sui visi pallidi dei suoi concittadini, sulle piazze grandi e sulle strade lunghe dove, nonostante il clima non proprio allegro dei quei giorni, la gente sta cercando in tutti i modi di mandare avanti la propria vita.

Stringe nella mano il sacchetto, il cielo è di un colore strano, i contadini dicono che quando è così sta per cambiare il vento e qualcosa di nuovo sta per entrare nella tua vita. Di solito per loro è una pioggia fitta che irriga finalmente i campi dopo la siccità estiva. Per Alessio, chissà, magari una novità.

Quando passa nella piazza antistante il Palazzo Reale si rende conto che un fermento particolare la sta animando.

Un valletto di corte è in piedi – su un rialzo in legno probabilmente – e un nugolo di persone lo accerchia.

Alessio si avvicina interessato dalla singolarità dell’evento, con passo calmo ma sguardo attento, riesce a cogliere il discorso solo da metà.

«…Sua Maestà il Duca di Savoia, chiede ai suoi concittadini di riunirsi nel piazzale antistante il Palazzo per una riunione cittadina di estrema importanza».

Alessio sgrana gli occhi. Cosa può essere successo se addirittura il Duca in persona si abbassa a parlare con loro. È vero anche che alcuni superstiti di Verrua gli hanno detto che il Duca non si è risparmiato in quell’occasione e che è spesso stato in prima linea a spronare gli uomini e dare ordini. Alcuni dicono addirittura che se non fosse stato per lui non avrebbero retto così tanto.

Lui rimane scettico. Sa quanto i ricordi possano essere confusi in battaglia e non ha mai avuto una grande stima dei reali, non che abbia qualcosa contro Vittorio Amedeo in persona, semplicemente non si fida. Anche se al momento – quasi sicuramente per motivi profondamente diversi – hanno lo stesso interesse: non vedere Torino cadere nelle mani francesi.

«Si sa già che vuole dirci il Duca?»

A parlare è stato un uomo nella folla con un accento piemontese marcato, dalla parte opposta rispetto ad Alessio che non ha fatto in tempo ad individuarlo.

«Lo saprete a tempo debito. Presentatevi qui all’orario pattuito e spargete la voce».

Il valletto scende dal sostegno e la folla inizia a disperdersi. Sulla bocca di tutti ci sono parole di curiosità, opinioni circa quanto può o meno voler comunicare il Duca ai suoi sudditi, espressioni confuse.

Un ragazzo invece di disperdersi come gli altri si avvicina al valletto. Ha un portamento più signorile rispetto al resto delle persone che Alessio vede di solito, le spalle sono dritte, il corpo così esile che sembra non aver mai visto un giorno di lavoro, i vestiti puliti.

Alessio rimane a fissarlo. Lo vede parlare con il valletto avvicinandosi solo un poco con il busto, come a protendersi verso di lui per cogliere meglio le sue parole o forse per provocarlo, non saprebbe dire quale delle due.

Il valletto lo guarda per un attimo incerto poi gli dice due parole e se ne torna veloce verso il Palazzo.

Appena esce dal suo campo visivo, il ragazzo smette l’atteggiamento che ha avuto fino a quel momento e rilassa le spalle curvandosi su sé stesso. Il sorriso sparisce e lo sguardo diventa serio e concentrato.

Sembra quasi preoccupato, valuta Alessio.

«Che hai da guardare?»

Alessio si riscuote e vede che il ragazzo si sta rivolgendo a lui. Ha lo sguardo di sfida ma non è così aggressivo come forse vorrebbe fare intendere.

«Che ti ha detto il valletto?»

L’altro lo guarda a lungo, come per esaminarlo e constatare se si può o meno fidare di lui.

«Che saprò che vuole il Duca quando il Duca stesso me lo dirà», risponde con un tono seccato.

Alessio rilascia un respiro che non si accorto di trattenere, sente un briciolo della tensione che stranamente gli ha preso le spalle allentarsi.

«Il Duca sa cosa è meglio per noi, anche quando e come dobbiamo morire», risponde Alessio con il tono palesemente sarcastico ed esagerato, mentre si esibisce in una riverenza verso il Palazzo Reale.

Al ragazzo sfugge una piccola risata he subito viene soffocata da una mano ed un colpo di tosse, ma Alessio l’ha notata e come, così come ha notato i suoi occhi farsi piccoli sotto la spinta degli zigomi e brillare per un attimo.

«Dicono che i francesi si stanno ritirando», continua Alessio riacquistando serietà e cercando di riportare inconsciamente l’attenzione dell’altro su di lui.

«E tu ci credi?»

La domanda è stata posta a seguito di una risata scappata dalle labbra piene e un sopracciglio alzato.

«Direi di no».

«Esatto».

Il ragazzo si guarda intorno alla ricerca di qualcosa o forse di qualcuno. «Immagino lo sapremo oggi pomeriggio», e fa per andarsene.

«A che ora ha detto, già?», gli dice a voce leggermente più alta Alessio per raggiungerlo ora che si sta allontanando a grandi falcate.

«Alle quattro, davanti al Palazzo di Città», gli dice senza girarsi.

 

La campana della chiesa suona per la messa del mezzogiorno e Alessio si affretta a prendere via Po, per raggiungere casa sua. In mano ha ancora stretto il sacchetto con la brioche che ormai si sarà raffreddata e la pagnotta di pane.

Lungo la strada incontra volti che conosce da che ha memoria e persone che conoscevano suo padre prima di lui.

Quante di loro riconoscerà ancora dopo che i francesi se ne saranno andati?

Quanti di loro hanno perso qualcuno in quell’assedio che già dura da un anno?

Quanti di loro riconoscerà se i francesi non se ne andranno affatto e prenderanno possesso non solo della sua città, ma anche del suo stile di vita, dei suoi ricordi della sua famiglia?

«Papà».

Una bambina con i capelli nero corvino, raccolti in piccoli codini, gli corre incontro con il sorriso pieno. Porta un vestitino azzurro, rammendato in più punti con maestria.  Gli si butta addosso e lui si piega per prenderla sotto le braccia e sollevarla.

Lei gli mette le manine sul viso e lo stringe felice. «Papà mi sei mancato».

«Ti sono mancato? Sono stato via solo qualche ora»

«Mi sei mancato lo stesso», dice la bambina mettendo su il broncio.

«E cos’è quel musetto? Ti sei arrabbiato con tuo padre?»

«Sì, papà. Devi farti perdonare».

Alessio ride appena e varca la soglia di casa con la bambina ancora in braccio. «Non credi che la stiamo viziando troppo nostra figlia?» domanda alla moglie che sta pulendo un pollo che sarà il loro pasto per qualche giorno.

«Sei tu che la vizi se continui a prenderla in braccio, ormai è grande», dice la donna che ha gli occhi scurissimi, così come i capelli.

Alessio si abbassa per lasciarle un bacio fugace con la bambina ancora attaccata al collo.

«Ho preso mezza pagnotta da Carlo», dice posando il sacchetto sul tavolo davanti la moglie, «E nel sacchetto c’è una sorpresa per questa bimba».

La bambina, che Alessio ha rimesso con i piedi a terra poco prima, si porta le manine alla bocca in un’espressione stupita che gli fa ridere il cuore.

«Guarda qui», dice mettendole davanti la brioche davanti agli occhi che la bambina sgrana per la sorpresa. Guarda la mamma prima di prenderlo e vedendo che anche lei sta sorridendo l’afferra e se la porta alla bocca tirando un morso. 

Alessio sorride felice. «Lasciane un po’ pure per mamma».

La bimba annuisce e tira un altro morso.

Alessio e Maria sorridono felici guardando loro figlia e poi portando lo sguardo sull’altro.

«Com’è andata oggi?», chiede Maria con gli occhi perdono la lucentezza che c’era stata fino a poco prima.

Alessio scuote la testa. «Nessuno costruisce più nulla», risponde semplicemente, deluso e affranto. «Con la guerra alle porte chi vuoi che pensi a costruire», lo dice più a sé stesso che a sua moglie, come un mantra che si è ripetuto troppe volte.

«Ho parlato con Anna, ha detto che mi può girare qualche lavoro che le arriva, che lei ha da pensare al bambino e non sempre ha tempo. Non è molto, però…»

Alessio espira sonoramente, non è per la moglie, è per la situazione. Lavoro da muratore per lui è da un po’ che non ce n’è e si deve arrangiare a fare ciò che gli capita, quando capita.

Riescono a crescere Marinella come si deve solo per l’aiuto che si danno l’un l’altro con i vicini di casa. Quando c’è bisogno non esistono dissapori o litigi e quando la guerra bussa alle tue porte c’è sempre bisogno, non solo di conforto morale, ma anche e soprattutto di un aiuto pratico.

Alessio ha perso il conto di quante volte hanno diviso il loro pasto con qualcuno che in quel momento non ce l’aveva e allo stesso modo i loro vicini fanno con loro.

Si lascia praticamente cadere su una sedia, Maria gli stringe una mano.

«Non ti preoccupare, ce la faremo».

Alessio ricambia la stretta e le sorride. «Oggi il Duca farà un annuncio, lo strillone ha detto di spargere la voce. Vado a sentire che dice».

Maria annuisce. «Girano tante voci».

«Le ho sentite anche io».

Il discorso termina e nessuno dei due ha l’animo di farne partire un altro. Maria torna a preparare il pranzo, Alessio si dedica ad un lavoro di falegnameria che stava portando a termine ma non essendo il suo campo sta venendo davvero male.

 

Le quattro arrivano più velocemente di ciò che si aspettasse. Marinella sta dormendo, mentre Maria cuce e alza lo sguardo quel tanto che basta per guardarlo uscire.

Il cielo è ancora chiaro ma il pomeriggio ha portato con sé qualche nuvola e l’aria si è irrigidita ancora. Si stringe tra le spalle e accelera il passo.

La piazza davanti Palazzo di città è gremita di persone di tutte le estrazioni sociali, ma soprattutto i mendicati della zona vicina, piena ormai di tutti coloro che a causa della guerra hanno perso la casa, un lavoro e pure qualche arto.

Alessio tenta di infilarsi tra la folla per guadagnarsi un posto più vicino. Si guarda intorno e riconosce qualche volto noto, ma colui che cerca non lo vede.

Il Duca Vittorio Amedeo arriva in sella al suo cavallo da via di Porta Susina con al seguito due ufficiali dell’esercito a cavallo.

La folla smette immediatamente di parlare, come se solo con la sua aura il Duca avesse intimato a tutti di tacere.

Si posiziona al centro della piazza, proprio davanti a loro e quelli ai lati si stringono naturalmente attorno alle tre figure a cavallo.

«Concittadini, come sapete i francesi si sono stanziati alla Venaria Reale, iniziando a costruire un campo da usare come base per l’assedio di Torino».

Un brusio si sparge tra la folla. Li ha fatti chiamare per dir loro ciò che già sanno?

«Ciò che forse non sapete è che si stanno ritirando nei quartieri invernali».

Il brusio adesso si trasforma in una voce che gira veloce di bocca in bocca.

«Siamo liberi?»

«Si sono arresi?»

Il Duca alza la mano per richiedere il silenzio prima di ricominciare a parlare. «Questo non vuol dire che la battaglia è finita. Vuol dire solo che ci sottovalutano, ancora una volta non ci reputano alla loro altezza o abbastanza determinati da tentare il tutto e per tutto contro di loro».

Il Duca ha la completa attenzione della piazza, nessuno fiata più. Tutti gli sguardi sono su di lui.

«Il Generale La Feuillade ha oggi stesso deciso ed accordato una tregua di sei mesi per passare l’inverno in pace e al caldo delle nostre case, prima di riprendere l’assedio con più forze armate e con meno stanchezza. Ciò che non sa però è che noi questo inverno non ce ne staremo in panciolle ad aspettare vengano a bussare alla porta di casa di nostra fino a buttarla giù. Non gli permetteremo di entrare nelle nostre case, prendere il nostro cibo, le nostre mogli, sorelle e figlie, perché noi questo inverno lavoreremo senza sosta per erigere delle difese che i francesi non possono sognare neanche nei loro sonni più rosei. Questo inverno costruiremo rinforzeremo le nostre mura e scaveremo la nostra terra per dimostrare in primavera di cosa sono capaci i cittadini di Torino!»

Un urlo coesa è la risposta a quelle parole. Alessio si guarda intorno e lo sguardo dei suoi concittadini è acceso dal fuoco che arde nelle parole del Duca.

«Ogni torinese e chiunque sia giunto a Torino per colpa della guerra che ha forza di lavorare è perciò chiamato a prestare le sue mani, le sue braccia e la sua schiena per l’opera che proteggerà noi stessi, le nostre famiglie, le nostre case e la nostra città dai francesi. Ad ognuno sarà accordato un salario giornaliero a seconda del lavoro che potrà prestare».

Le ultime parole del Duca servono ad incendiare gli animi dei cittadini più restii. Tutti levano un grido di gioia verso Vittorio Amedeo II che li sta portando a morire ma dando loro soldi.

Alessio non si lascia coinvolgere dall’entusiasmo serpeggiante ma l’ultimo annuncio è come una benedizione dal cielo, perciò si mette in fila per dare il proprio nominativo e mettersi al servizio della guerra.

«Le voci che giravano oggi avevano ragione in parte».

Un tono di voce noto ma che non riesce subito ad inquadrare attira la sua attenzione. Si volta e la prima cosa che nota sono i capelli biondi che non saprebbe dire precisamente di che sfumatura siano, perché ne hanno così tante all’interno che non riesce a decidersi.

Il ragazzo di quella mattina è accanto a lui ma non lo guarda, tiene lo sguardo fisso davanti a sé sul Duca che si sta apprestando a tornare ai suoi doveri.

«Ti arruoli anche tu?»

«Ho scelta?»

Alessio non risponde, si guarda intorno e vede che chiunque in realtà sta andando a mettere il suo nome su quel pezzo di carta, nessuno può permettersi di rifiutare un salario giornaliero in quei giorni.

«Sono venuto anche per mio fratello», continua indicando con il mento un ragazzo poco distante, sembrano avere più o meno la stessa età e Alessio dall’aspetto non saprebbe dire chi sei due è il più grande ma a giudicare dall’atteggiamento quello che gli è accanto è di sicuro il maggiore.

«Siete entrambi giovani», constata Alessio.

Il biondo alza un sopracciglio ma non poi lo riabbassa e assume un’espressione seria. «Per la guerra non si è mai troppo giovani».

Alessio annuisce. La guerra quella volta è venuta a bussare alle loro porte e minaccia di radere al suolo tutto ciò che conoscono così come lo conoscono nel giro di poco tempo. Per quanto non sia felice della situazione attuale non c’è molto altro che può fare se non dare il proprio contributo.

«Come credi che rinforzeremo le mura?» chiede il ragazzo.

Un signore davanti a loro si volta e gli risponde al suo posto. «Hanno chiamato un uomo di cultura, il signor Bertola. Dicono che se ne intenda di fortezze e che abbia delle idee che faranno tornare i francesi dritti nelle gonne delle loro madri a piangere», sghignazza alla fine e loro con lui.

«Fortuna che ci sono gli uomini di cultura, allora».

«Fortuna, sì, giovanotto. Fortuna sì».

Alessio li guarda scambiarsi quelle poche battute, affascinato inspiegabilmente dal biondo accanto a lui. Dal modo in cui mette le labbra mentre ascolta l’altro e dal modo in cui si lecca il labbro inferiore prima di parlare.

Il ragazzo si volta e gli sorride complice. Un sorriso simile si dipinge sul suo volto.

«Tu come ti chiami?»

«Alessio Micca»

«Che sai fare?»

«Sono un muratore»

«Bene, ti mettiamo a scavare i rami di contromina e le gallerie allora. La paga è di 2 lire al giorno, si comincia da domani alle sette. Se non sai scrivere metti una croce»

Alessio firma il foglio e prende per sé quello di impiego, si sposta dalla fila e piega il foglio per metterlo al sicuro in una tasca.

Aspetta qualche attimo e il ragazzo biondo lo raggiunge, seguito dal fratello. Adesso che li guarda uno accanto all’altro non si assomigliano per nulla.

Il biondo ha dei lineamenti molto più sottili, quasi nobili, se fosse vestito come si deve forse si confonderebbe addirittura tra di loro, l’altro invece è più basso e tarchiato, ha il naso schiacciato e gli occhi piccoli. Non è né brutto né bello, né particolare. È un torinese come se ne vedono tanti.

Suo fratello invece ha quel qualcosa in più che lo rende diverso, come se avesse un piedistallo a metterlo naturalmente un gradino più in alto rispetto a tutto il resto.

«Lui è mio fratello Vittorio», dice il biondo interrompendo i suoi ragionamenti.

«Alessio, piacere», dice stringendogli la mano.

«Alessio. Solo adesso vengo a conoscere il tuo nome», dice con un sorriso aperto, «Io sono Gennaro», conclude porgendogli la mano che Alessio stringe con la sua.

«Adesso siamo entrambi al servizio della guerra ed entrambi abbiamo un salario giornaliero. Andiamo a spenderne un po’ all’osteria?»

Alessio sorride, dovrebbe tornare a casa ma una visita all’osteria non se la nega. Annuisce e gli fa strada.

«Vittorio tu torna pure a casa. Ti raggiungo a breve»

Il più piccolo annuisce e se ne va salutandoli.

 

Alessio si ritrova accanto a lui con un leggera sensazione di disagio, non sa perché si senta in quel modo. Probabilmente per il movimento delle sue dita affusolate sul bicchiere di vino che stanno bevendo, o forse per il modo in cui le sue palpebre si chiudono sempre di più ad ogni sorso o magari per le gocce rubino che di tanto in tanto si fermano sulle sue labbra inumidendole e rendendole ancora più attraenti.

Sono nell’osteria da più di un’ora, valuta Alessio e ancora non si è stancato di sentirlo parlare di sé stesso e della sua vita.

Dice che si è trasferito a Torino da poco, da quando ha scoperto che suo padre aveva dato al mondo un altro figlio con un’altra donna. Una volta che loro padre è morto Gennaro ha deciso di venirlo a trovare e stabilirsi qui insieme a lui.

«Tu invece? Qual è la tua storia?»

Alessio si lecca il labbro inferiore per raccogliere le idee in mezzo alla prima confusione datagli dal vino bevuto.

«Non c’è poi molto da dire, sono figlio di un muratore. Per un periodo della mia vita ho vissuto nelle campagne intorno a Torino, poi mi sono trasferito qui dopo…», si ferma e non sa perché, è stato un riflesso condizionato, un qualcosa che ha risuonato al fondo della sua coscienza. «Dopo che nel mio paese non si è trovato più lavoro. Speravo che qui se ne trovasse di più, ma mi sono ritrovato a dover scavare la terra piuttosto che costruire case».   

Gennaro lascia il bicchiere sul tavolo tra di loro e si appoggia ad un braccio mentre con lo sguardo lo studia. Alessio si sente completamente spoglio davanti a lui e spera che non capisca la parte della sua vita che sta cercando di omettere.

«Io sono stato assegnato alla costruzione di un’opera in superficie, ma non so a che serva sinceramente»

«Ti hanno preso ai lavori pesanti anche se sembri non poter sollevare una trave di legno?»

La frase la dice ridendo, è ironica ma in realtà deriva da una vera e proprio curiosità, per non dire preoccupazione.

In risposta Gennaro alza un sopracciglio, si sporge verso di lui sul tavolo e solleva un angolo della bocca. «Non hai idea dei lavori che ho portato a termine nonostante il mio aspetto, non sottovalutarmi».

Non sa se è una minaccia, un avvertimento, un modo per rispondere alla sua battuta con un’altra, sa solo che nel momento in cui si è avvicinato si è ritrovato a fissare i suoi occhi senza possibilità di staccarvisi e sulle sue labbra ha sentito il sapore e la leggera spinta del suo fiato caldo e pregno di vino.

Rimangono a guardarsi per un tempo che ad Alessio sembra infinito eppure troppo breve, avrebbe voluto rimanere a sentire il suo respiro sulle labbra finché non si fosse abituato al suo sapore, diventando il proprio.

Quando si staccano Gennaro butta giù l’ultimo sorso di vino e poi si alza barcollando appena.

«Devo rientrare. Mio fratello mi aspetta».

Alessio annuisce ed escono insieme dopo aver pagato l’oste.

Il sole è ormai calato da varie ore, il cielo è scuro e in cielo oltre la luna ci sono varie stelle.

Non riesce a cogliere a pieno l’espressione con la quale lo sta guardando perché al buio riesce solo a scorgere uno sbrilluccichio in corrispondenza dei suoi occhi.

Lo sente però avvicinarsi così tanto che per un attimo ha il timore che le loro labbra si possano toccare ma non accade perché Gennaro si sposta leggermente di lato e finisce per sfiorargli la guancia con le labbra, segnando una scia fino al suo orecchio.

«Ci vediamo domani, allora», gli sussurra piano, per poi scostarsi e superarlo senza dirgli nient’altro.

Alessio rimane immobile per attimi interi prima di ritrovare la forza di far muovere anche solo un muscolo e di incamminarsi verso casa.

Fatica a mettere in ordine gli avvenimenti della giornata, un po’ per l’alcool, un po’ forse per l’assurdità si alcune situazioni e di alcune sue risposte a queste.

Sulla strada che lo divide da casa evita ostinatamente la domanda che in realtà vorrebbe farsi ma che sa che non avrebbe risposta.

 

Apre la porta piano, sperando di non svegliare moglie e figlia. La casa è avvolta nel buio eccetto per la e braci che ardono quasi sopite nel camino e la luce di una candela che rischiara appena il volto di sua moglie.

«Pensavo tornassi per cena».

«Il discorso ha creato un gran fermento, alla fine ci siamo riuniti con alcuni degli uomini a parlare dell’assedio imminente che ci travolgerà».

«Quindi non è vero che si sono ritirati», la voce di Maria è piena di preoccupazione e paura.

Alessio scuote la testa. «Ci hanno lasciato l’inverno, in primavera attaccheranno»

«Era questo che voleva dirvi il Duca?»

«Offre a tutti un lavoro per fortificare le mura e permetterci di resistere ai francesi una volta che attaccheranno, la paga è giornaliera e almeno riusciremo a vivere più tranquillamente»

Maria tira un sospiro di sollievo che quasi fa spegnere la candela davanti a lei. «Menomale sono sollevata», dice alzandosi e raggiungendolo in cerca delle sue labbra.

Alessio le pone un bacio casto sulla bocca. «Inizio da domani, è meglio che vada».

Maria scioglie l’abbraccio nel quale l’aveva cinto e si fa da parte.

 

 

L’indomani mattina Alessio esce presto per recarsi verso Porta Susina, dove inizierà i lavori. Ci sono vari uomini che come lui si dirigono dalla stessa parte.

L’aria è fredda, il sole ancora non è comparso del tutto e il cielo ha un colore grigiastro che non promette nulla di buono.

Arrivato al luogo dell’incontro i capi cantiere li dividono, tra chi dovrà lavorare in superficie e chi invece è addetto ai lavori di scavo.

Alessio si mette in fila dalla sua parte per essere smistato nei vari gruppi di lavoro e nel mentre si guarda intorno alla ricerca di una testa bionda che però non riesce a scorgere.

Il primo giorno lo passa a scavare, spostare terra e scavare ancora. Stanno ampliando le gallerie sotterranee in particolar modo dotandole di gallerie di minatura che secondo i militari permetteranno loro di vincere o di far fuori il maggior numero di francesi, che comunque sarebbe una vittoria.

Alessio parla poco e lavoro molto, soprattutto perché lì sotto l’aria non li raggiunge facilmente nonostante i pozzi che dovrebbero portare l’aria dalla superficie.

La polvere e la terra si mescolano all’aria e gli riempiono i polmoni ogni volta che tenta di proferire parola, per quello il suo primo giorno passa così.

Quando torna a casa è esausto e a stento ce la fa mangiare, ma prima di rientrare gli hanno dato le 2 lire che gli spettano e lui ha potuto comprare pane fresco per la sé e per la sua famiglia.

Una consolazione che cerca di rendere il più preziosa possibile nel suo animo nel tentativo di trovare la forza di alzarsi per andare a lavorare il giorno successivo.

Più passano i giorni, più Alessio si abitua ai ritmi delle gallerie, la polvere nell’aria non gli da più fastidio come prima anche se di tanto in tanto tossisce forte tanto da doversi fermare qualsiasi cosa stia facendo.

È in uno di quei momenti che sente una mano leggera posarsi sulla sua spalla. Tutti i suoi compagni sono andati avanti, così si volta curioso e davanti a lui vede due occhi grandi e blu che lo fissano.

Il suo cuore si ferma per un attimo, non si vedevano da un mese, forse un po’ meno eppure non era passato giorno in cui Alessio non avesse tentato di scorgere tra i lavoratori i suoi capelli biondi dalle mille sfumature.

«Come sta andando?»

«Bene, costruisco gallerie che poi dovranno saltare in aria. Cosa potrebbe esserci di meglio?»

Gennaro sorride, nascondendo il viso dietro una mano. «Pensa che noi di sopra stiamo costruendo una specie di cornetto davanti la Mezzaluna, non so neanche a che servirà. Forse uno degli uomini di cultura aveva fame quando lo ha pensato».

Ridono insieme e le loro risate si mescolano rimbalzando sulle pareti.

«Mi sto prendendo una pausa, vieni con me?»

Alessio lo guarda e finge di pensarci ma in realtà aveva già deciso.

Per non essere disturbati decidono che la soluzione migliore è rimanere nei sotterranei e trovare una galleria un po’ nascosta, Alessio ne individua una che hanno finito di costruire da poco e deve essere ancora riempita del tutto.

Si accucciano a terra, uno difronte all’altro con le gambe incrociate.

«Come fai a lavorare qui sotto? Senza vedere mai il sole».

«A quello ci si abitua, alla polvere anche e almeno sono al caldo. Lì su tra un po’ si gelerà».

«Si gela già adesso, non basta spostare sassi tutto il giorno per scaldare i piedi».

«L’arrivo della primavera quest’anno non promette nulla di buono, quindi mi godo il freddo quanto più possibile».

Gennaro lo guarda a lungo con gli occhi stanchi. «Quest’anno la primavera sarà più dura dell’inverno».

Alessio non trova nulla da ribattere, perché è vero. Quell’anno non hanno neanche la speranza di una primavera ed un’estate prospere e calde, perché non appena la neve si scioglierà i francesi attaccheranno e chiunque di loro potrebbe conoscere il freddo eterno della morte.

«Ti vedo per la prima volta seriamente preoccupato per questa guerra».

«Sono preoccupato da quando hanno detto che i francesi ci stanno aspettando».

«No, è diverso. Stai pensando a qualcos’altro».

Gennaro lo fissa con lo sguardo imperscrutabile, non saprebbe assolutamente dire cosa sta pensando in quel momento. Poi rilassa la mascella, si abbandona al muro e riacquisisce l’espressione di sempre.

«Sono preoccupato per mio fratello, quasi sicuramente ci assegneranno a parti dell’esercito diverse».

«Hai un vero senso della famiglia nei suoi confronti».

«Ce lo avresti anche tu se avessi qualcuno da proteggere».

Lo stomaco di Alessio si stringe e pensa a Maria e a Marinella a casa ad aspettarlo, nella speranza di passare sempre più giorni insieme prima che qualcosa di brutto possa accadere.

«Promettimi una cosa».

Alessio si fa attento e si scosta con la schiena dal muro per andargli incontro.

«Se io non ci sarò, proteggi mio fratello».

Rimane interdetto per qualche istante ma quando sta per ribattere Gennaro prende di nuovo la parola.

«So che è stupido e che è tanto da chiederti ma mi sembri una persona buona e lui ha avuto una vita difficile e io mi sento responsabile nei suoi confronti ma non potrò esserci per sempre. Quindi», punta di nuovo gli occhi blu profondi nei suoi, come se in quel modo potesse convincerlo davvero e Alessio non fosse stato già convinto dal primo momento in cui aveva aperto l’argomento, «Mi prometti di fare ciò che è in tuo potere per proteggere mio fratello?»

Alessio annuisce con convinzione. Non sa perché per lui quella decisione è stata così facile da prendere, in realtà non è stata neanche una scelta. Semplicemente nel momento in cui Gennaro aveva pronunciato le parole “Promettimi una cosa”, lui era già pronto a giurargli fedeltà assoluta.

Il viso di Gennaro si apre in un sorriso di sollievo sincero. «Grazie», dice prendendo tra le dita la sua mano.

Non la stringe, non la scuote, semplicemente gli accarezza le dita con le sue, come a voler ribadire che delle sue mani si fida e che gli affiderebbe non solo il fratello ma anche qualcos’altro.

«Alessio!»

Alessio si riscuote all’stante caccia la testa dalla galleria nella quale sin sono nascosti. È uno dei suoi compagni ad averlo chiamato.

«Che stai facendo? Non ti trovavamo più».

«Scusa, sto controllando e finendo di sistemare questa galleria di contromina».

«Ah sì, l’altra squadra non era riuscita a finirla».

Alessio annuisce e spera che se ne vada, Gennaro dal canto suo è rimasto con le dita intrecciate alle sue e non emette fiato.

«Ti raggiungo subito, finisco di sistemare una cosa qui».

L’altro annuisce e se ne va. Alessio attende ancora qualche secondo poi tira un sospiro di sollievo. Non sa neanche perché si è agitato in quel modo, in fondo non stanno facendo nulla, eppure c’è qualcosa nel modo in cui si tengono ancora per mano che gli fa sentire la pressione di star facendo qualcosa di proibito e osceno.

Gennaro slaccia la mano dalla sua e gli scivola davanti per andarsene. Prima di uscire completamente dal suo campo visivo si volta e gli sorride. «Ci vediamo».

 

*

I mesi invernali passano veloci tra il lavoro nei sotterranei e l’inverno che rende sempre più difficile procacciarsi del cibo nonostante il salario giornaliero.

Alessio esce spesso di casa che il cielo è ancora scuro e torna che il sole è già calato. Se non fosse per alcuni fugaci giorni di riposo potrebbe dire di non vederlo da settimane ormai.

Non passa che pochi fugaci attimi con la sua famiglia. Quando torna a casa è così stanco che riesce a stento a dare un bacio sulla fronte di Marinella e poi crolla esausto spesso sulla sedia davanti il camino ancora acceso.

Con Maria parla a stento, forse per colpa della guerra forse per il senso di colpa che si porta nel petto a causa di due occhi blu come l’acqua del fiume che fatica a dimenticarsi persino quando la moglie tenta di avere con lui un contatto più profondo.

Quei pensieri lo rendono nervoso e inquieto nei momenti in cui dovrebbe essere più felice, eppure non riesce ad eliminarli dalla sua mente.

Insieme all’inverno si acuisce anche la paura dei francesi, alcuni dicono che stanno ricostituendo il loro esercito che a costo delle persone perse a Verrua e a Chivasso erano riusciti in qualche modo a rendere più esiguo.

Le notizie che arrivano dall’oltralpe sono tetre, il lavoro nei sotterranei è cupo, l’umidità spesso gli entra nelle ossa così a fondo che neanche quando torna a casa riesce a scaldarsi sul serio.

Se non fosse per i suoi fugaci incontri con Gennaro probabilmente penserebbe di esser finito già all’inferno.

Era iniziato tutto qualche sera dopo la promessa che si erano scambiati, Gennaro gli aveva offerto da bere dopo il lavoro e lui aveva accettato.

C’era stato tanto di quel vino che neanche ricorda quanto ne ha buttato giù, sa solo che non era stato così tanto da permettergli di giustificarsi con esso il giorno dopo essere calato sulle sue labbra con ardimento e passione che non aveva provato mai in vita sua.

Dopo la prima volta sebbene sperasse di togliersi dalla testa Gennaro e i suoi occhi blu, era entrata in gioco la sensazione morbida e dolce delle sue labbra sulle sue ad acuire il desiderio che provava.

A giudicare dal modo in cui Gennaro lo veniva a trovare e a cercare anche lui non doveva provare un tormento minore.

 

Ha cercato spesso un modo per non cedere più a quegli incontri, ha cercato spesso il modo di allontanarsi, ma più ci prova più si ritrova coinvolto dalla rete che ha tessuto il biondo.

Più tenta di non pensarci più gli torna in mente.

Ha smesso di provare ad allontanarlo da sé sia fisicamente che mentalmente una sera che se l’è sognato e la moglie gli ha chiesto chi fosse questo Gennaro che continuava a chiamare nel sonno.

In quell’occasione è riuscito a cavarsela con una scusa ma da quel momento ha smesso di privarsi di lui.

 

Il giorno in cui arriva la notizia che i francesi stanno riconquistando la posizione è un bel giorno di primavera, in cui l’aria è fresca ma il sole splende e Alessio fino a quel momento aveva davvero sperato di potersi godere ancora qualche giorno in pace.

Il lavoro è terminato pochi giorni prima e Alessio ancora non si abitua alla bellezza di godere del sole per così tante ore al giorno.

«Credo che mi metteranno sul secondo camminamento a sparare a chiunque si avvicinerà troppo al fossato», dice Gennaro rompendo il silenzio attorno al posto riparato che hanno trovato sotto un portico.

Alessio gli accarezza mollemente il petto, scacciando via ogni pensiero tetro poiché godendosi gli ultimi attimi di quiete prima dell’inizio dell’assedio.

 

*

Torino, 29 agosto 1706



 

Il crollo di un’altra delle gallerie gli fa chiudere gli occhi istintivamente e aggrapparsi forte alla baionetta che tiene in mano.

Sono giorni che non esce dalle gallerie, rimane giorno e notte ora nell’una ora nell’altra per assicurarsi di dar fuoco alla miccia che farà esplodere il terreno da sotto i piedi dei francesi.

La battaglia sta andando avanti mietendo vittime sia nell’uno che nell’altro schieramento, nel fossato davanti le mura ci sono centinaia di corpi che Alessio neanche riesce a distinguere se siano francesi o meno.

I volti che incontra nelle gallerie sono stravolti, nessuno ha la forza di parlare per più dello stretto necessario e tutti si augurano che quell’inferno finisca al più presto.

Quella sera è stato assegnato alla scalinata che si trova proprio vicino il fossato dove la battaglia si svolge in maniera più aspra. Come compagno quella sera gli è capitato Vittorio, il fratello di Gennaro.

Non è la prima volta che svolgono un turno insieme e Alessio in un certo qual modo ne è felice perché almeno può sapere qualcosa riguardo Gennaro, che ormai non vede da mesi. Praticamente dall’inizio dell’assedio.

Sa che è vivo, altrimenti Vittorio sarebbe stato avvertito, ma non ha modo né tempo di vederlo, né di parlare con lui.

Forse da un certo punto di vista è un bene, considerando tutto ciò che è successo tra di loro non sarebbe facile sostenere i suoi occhi e sapere che potrebbe essere l’ultima volta che potrebbe vederli.

Nonostante Vittorio sia diverso da Gennaro in tutto, Alessio sente che il solo stargli vicino lo avvicini in qualche modo a lui.

Su pensieri del genere cerca in tutti i modi di non soffermarsi più di tanto, perché rendono o stare chiuso lì sotto ancora più spiacevole.

«Quando pensi finirà?» gli chiede Vittorio con la testa appoggiata al muro della galleria e la baionetta tra le braccia.

Alessio prende un respiro. «Non lo so».

«Cosa farai dopo l’assedio?»

«Se ci prendono i francesi intendi?»

Vittorio ride appena. «Non lo dire neanche per scherzo, dopo essermi spaccato la schiena per costruire queste gallerie come minimo devono pararci il culo e farci vincere».

Alessio ride con lui piano. Non ha nulla di Gennaro, è molto più spontaneo, meno posato, meno affascinante eppure c’è qualcosa nel modo in cui appoggia la testa al muro, al modo in cui atteggia le labbra quando è in ascolto che glielo ricorda in qualche modo.

«Non so cosa farò. Probabilmente me ne starò steso a guardare il sole per tutto il tempo che non ho potuto guardarlo in questi mesi».

«A chi lo dici. Io non vorrò vedere una galleria mai più».

Le loro parole vengono interrotte da una scarica di colpi e delle urla strozzate appena fuori la porta.

Alessio si riscuote e si alza immediatamente. Avvicina l’orecchio alla porta e sente le voci di alcuni commilitoni scambiarsi ordini.

«Qui fuori sono ancora italiani», dice a Vittorio che è rimasto dietro di lui, in attesa di sapere cosa fare.

Alessio decide di aprire di pochissimo la porta e vede che vari suoi concittadini stanno cercando di rimandare indietro i francesi che scendono nel fossato grazie ad una breccia.

Quando vede l’ennesimo francese venire fulminato all’istante richiude la porta e la sbarra, voltandosi verso l’altro.

«Tra poco saranno qui, non riusciranno a fermarli tutti. Se questo succede dobbiamo accendere la miccia e scappare il più in fretta possibile».

Vittorio annuisce ma è palesemente spaventato a morte, gli occhi sono grandi e Alessio giurerebbe di sentir battere il suo cuore nel petto.

L’adrenalina e l’agitazione si mescolano quando per l’ennesima volta sente i fucili sparare ma questa volta sente anche le grida di alcuni italiani risuonare nella galleria.

Il respiro accelera e il petto si alza e si abbassa velocemente. Guarda Vittorio che si posiziona accanto alle mine predisposte esattamente per quell’eventualità.

Al di là della porta scoppia il putiferio. Si sentono imprecazioni in francese e in italiano, grida di uomini feriti o uccisi Alessio non saprebbe dirlo. Sente un ultimo colpo di fucile poi più nulla, fino ad un ordine in francese che non capisce per filo e per segno ma che sa con certezza voler significare solo una cosa: morte.

«Vai, vai. Accendila», incita Vittorio che è l’uomo predisposto a quel compito mentre lui si accerta che la porta di sbarrata perfettamente poco prima che un forte pugno si abbatta su di questa facendo cigolare il legno.

Parole francesi che assolutamente non capisce vengono urlate da attraverso la porta mentre quest’ultima viene battuta con forza da chissà quanti uomini.

Alessio sa che non potrà reggere in eterno quella porta e che se i francesi riusciranno a buttarla giù non sarà la fine solo per loro ma per tutti.

Se fossero riusciti ad entrare lì avrebbero trovato il camminamento centrale che collegava tutte le gallerie di contromina e a quel punto non ci sarebbe stato più nulla che i torinesi avrebbero potuto.

Si volta a guardare Vittorio che impaurito com’è non sta riuscendo a posizionare la miccia e accenderla.

«Non riesco, non riesco».

Il cuore gli batte all’impazzata al ritmo delle raffiche di pugni che i francesi stanno scaricando sulla porta. Per un attimo e solo per un attimo pensa di fuggire, di lasciare Vittorio al suo compito e scappare il più lontano possibile.

Subito, però, gli torna in mente che nessun luogo sarà così lontano dai francesi e dal senso di colpa che proverebbe nell’aver tradito la promessa fatta a Genn mesi prima.

In un impeto si scosta dalla porta e scende le poche scale che lo separano da Vittorio.

«Dai spostati che ci mettiamo tutto il giorno così, scappa io ti raggiungo».

Vittorio lo guarda con occhi grandi di paura ma dopo avergli lasciato spazio per mettere la miccia e adoperarsi per accenderla non accenna ad andarsene.

«È inutile che rimani qui. Inizia a scendere, io ti raggiungo».

«Ma…»

«Vai!»

Quello di Alessio adesso è un ordine e sul viso di Vittorio adesso non vede solo gli atteggiamenti di Gennaro ma anche quelli più infantili di Marinella e lo stomaco gli si stringe ancora di più, per la paura di non rivederli, per la paura di lasciarli nelle mani dei francesi.

Vittorio si volta e inizia a correre giù per le scale.

La porta cigola terribilmente sotto i colpi dei francesi, Alessi sa che sta per cedere. Non ha tempo di posizionare la miccia in modo da avere abbastanza tempo per scappare e mettersi in salvo.

Quindi fa l’unica cosa che gli viene in mente al momento. Lascia perdere il prolungamento della miccia e accende direttamente quella corta.

È un attimo che con l’acciarino crea una scintilla che inizia a correre verso le mine.

Si volta e corre all’impazzata giù per le scale, sente la porta aprirsi dietro di lui ma non si volta poi all’improvviso qualcosa lo investe spingendolo giù per le scale e tutto si fa buio.

 

*

Superga (Torino), 30 agosto 1706

 

Vittorio Amedeo, in sella al suo cavallo, guarda Torino da basso. Da dove si trova non vede che fumi e fuochi levarsi dal campo di fronte la Mezzaluna del soccorso.

Gli è giunta voce che quella mattina un soldato torinese ha dato la vita per proteggere la galleria maestra dai francesi.

Se fossero riusciti a scovarla… Il Duca non vuole neanche pensare ad una simile eventualità.

Uno scalpiccio di zoccoli attira la sua attenzione. Suo cugino, con portamento regale, così come quello che si addice ad un principe, si avvicina a lui.

«Cugino», lo saluta con un cenno del capo.

Finalmente il Principe Eugenio di Savoia è giunto a dar loro man forte nella battaglia. Grazie alle gallerie di mina e contromina sono riusciti a tenere testa al numero spropositato di uomini che i francesi gli hanno messo contro.

C’erano stati momenti in cui Vittorio Amedeo aveva temuto il peggio, ma adesso con Eugenio di Savoia accanto a lui, che ha portato uomini freschi in quantità e con le gallerie ancora salve dai francesi si permette di sperare che quella battaglia andrà a buon fine.

Perché dopotutto, loro sono torinesi e Torino rimarrà per sempre la loro casa.

 

  




Crash

Mar. 16th, 2019 11:25 pm
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Fandom: Urban Strangers
Prompt: Scontro

Questa storia partecipa al cow-t 9 di Lande di Fandom

Alessio è felice ma terribilmente di corsa. È uscito da lavoro prima quel giorno perché voleva fare le cose per bene.

È il primo San Valentino che lui e Gennaro passano insieme dopo che sono riusciti finalmente ad ufficializzare il loro fidanzamento.

Hanno passato anni a rincorrersi e a negarsi il sentimento che invece è cresciuto sempre più prepotentemente finché una sera, sotto la luce perlacea della luna, cullati dal rumore delle onde si erano finalmente dichiarati l’amore che l’uno prova per l’altro.

Da quel giorno Alessio si è sentito felice.

Non c’è un’altra parola che gli venga in mente per descrivere quel sentimento.

È quella sensazione che gli ha fatto chiedere qualche ora al capo per andare a comprare il regalo per il suo ragazzo: un cofanetto con dei film di Tarantino.

Adesso il pacchetto è accanto a lui sulla macchina e Alex gli dà un’altra occhiata prima di fermarsi al rosso.

Il telefono vibra ed è Gennaro che gli dice che è a casa e che lo sta aspettando, sorride con il cuore e con la bocca e invia una risposta.

Spera davvero tanto che quella giornata vada bene, non per lui, per lui ogni giorno passato con Gennaro è un giorno che bello ed emozionante. Ciò che desidera è che Gennaro si sentisse come si sente lui ogni volta che sono insieme.

Sebbene gli dica spesso che lo ama e che sta benissimo con lui a volte Alessio teme ancora di non essere abbastanza, né per sé stesso né per Gennaro. Sono strascichi che si porta dall’adolescenza e contro i quali ha lottato da tutta la vita e adesso non sono che ombre di ciò che erano un tempo, ma ogni tanto riaffiorano e gli oscurano i pensieri.

Perso com’è non si è accorto che è scattato il verde, un’auto suona il clacson e lui rimette in moto senza guardare.

Sente prima un suono acuto ed agghiacciate e poi sente il ferro che cozza contro ferro, lamiere che si accartocciano e una forza che lo spinge verso il finestrino, la cintura di sicurezza che lo tiene. Infine, batte la testa e tutto diventa nero.

 

 

Una voce lo chiama.

È dolce, cantilenante, soave.

La conosce.

Sa di conoscerla.

Ma di chi è?

Dove si trova.

Batte le palpebre ma il mondo davanti a lui è sfocato non riesce a capire a chi appartengano le figure che lo guardano.

La voce lo chiama ancora e d’un tratto si ricorda.

Labbra morbide e carnose premute sulle sue.

Mani fredde che si aggrappano alla sua schiena.

Capelli biondi come il grano maturo.

Occhi profondi come il mare.

«Genn»

«Alex. Oddio, Alex mi ha fatto prendere una paura assurda. Ti sei svegliato, menomale ti sei svegliato»

Il moro sorride, o meglio, crede di sorridere non sa se il suo viso risponde ai suoi comandi. Vorrebbe dirgli qualcosa, vorrebbe rassicurarlo, sembra così spaventato.

«Ora faccio venire un medico, va bene?»

Alex cerca di fermarlo, non vuole un medico. Vuole rassicurare Gennaro. Alza una mano e tocca la sua.

Gli occhi di Genn diventano pieni di lacrime. «Mi sono spaventato tanto, ma ora che ti sei svegliato andrà tutto bene, non preoccuparti». Genn sorride finalmente, con gli angoli della bocca bagnati dalle lacrime.

Alex continua ad accarezzargli la mano e nonostante tutto il corpo gli faccia male avrebbe continuato a farlo se Gennaro avrebbe continuato a sorridere così.

 



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Fandom: BeF
Warining: Slash
Prompt: In fuga

Questa storia partecipa al cow-t 9 di Lande di Fandom

Ben stringe le chiavi nella mano sudata, nonostante sia abituato a tenerle tra le dita quella sera gli sembrano diverse.

Gli sembrano più fredde, più scivolose, come se sfuggirgli dalle dita da un momento all’altro ma lui non l’avrebbe permesso e per questo le stringe ancora più forte. Non importano i solchi rossi e dolorosi che si sta scavando nel palmo, non importano i tendini della mano che iniziano a fargli male, perché quella sera Ben ha una missione.

Quella missione si chiama Federico e ha i capelli biondi come il sole in estate e gli occhi azzurri come il cielo nel quale l’astro è incastonato.

Si sono conosciuti nel luogo più brutto, sporco e tetro che Ben avesse mai visto: la prigione nella quale lavora.

La prima volta che lo aveva visto Federico aveva lo sguardo basso, le labbra tese e martoriate dai suoi stessi denti ma quando alzò lo sguardo Ben rimase totalmente affascinato dalla forza e dalla determinazione che rispecchiavano e che ancora rispecchiano.

Avevano continuato a guardarsi di sfuggita e mai per più di un secondo, finché una volta a Ben era stato assegnato il turno delle docce, Federico era l’unico rimasto ed entrambi non avevano saputo farne a meno.

 

Da quel giorno la sua vita è diventata un misto di adrenalina, pericolo, baci rubati al buio di uno sgabuzzino pieno di panni sporchi eppure Ben non si è mai sentito più vivo.

Anela le dita di Federico sui suoi fianchi in ogni secondo, persino in quel preciso istante in cui sta aspettando che l’altro secondino giri l’angolo e…

Mette le chiavi nella toppa, due occhi celesti si intravedono nel buio della cella.

«Ce l’hai fatta», sussurra Federico.

«Avevi dubbi?»

«Neanche uno».

L’allarme scatta nel momento esatto in cui Federico mette piede fuori dalla cella ma è un antincendio che è al piano di sotto e loro devo fuggire di sopra.

Tutte le celle si aprono di colpo ed è il delirio.

Ben prende la mano di Federico e lo tira cercando di evitare i corpi concitati che vengono loro addosso.

È una corsa ad ostacoli per la quale non si sono preparati ma che si aspettavano. Cercano di scartare tutti, lasciandosi le mani ma buttando sempre uno un occhio all’altro per non perdersi.

Sono quasi arrivati alla grata che li divide dal piano superiore e quindi alla via d’uscita.

Prende le chiavi che ha ancora in mano e le mette nella toppa.

«Benjamin che sta succedendo?»

Uno dei secondini al di là della grata lo guarda sbigottito, spaventato dalla confusione. Ben non pensa e dice la prima cosa che gli viene in mente.

«Hanno bisogno di un altro estintore, giù è un casino».

La sua voce è naturalmente agitata ma ovviamente non per l’incendio che sta divampando di sotto.

«Cazzo», dice il secondino lasciandogli aprire la grata. «Vado io», dice prendendo l’estintore e buttandosi nella mischia, «Tu resta qui»

«Certo ci penso io», gli urla dietro Ben. Si guarda intorno e Federico gli sorride.

Si prendono di nuovo per mano. Si sorridono.

Sono fuori, incredibilmente, e ce l’hanno fatta.



His place

Mar. 16th, 2019 11:40 am
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Fandom: Rise of the Guardians/How to train your dragon
Pairing: Jack Frost/Hiccup
Prompt: M2 sentimenti Tenerezza
Warning: fluff, slash

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Hiccup cammina piano nella stanza al piano di sopra della sua casa, cercando di far cigolare il meno possibile sia i meccanismi della sua gamba finta che il pavimento sotto di lui, senza grandi risultati.

La presenza di Sdendato di certo non aiuta la situazione in termini di silenzio, perché per quanto il drago possa rimanere immobile ogni suo più piccolo movimento crea un rumore che avrebbe svegliato chiunque.

Fortunatamente la persona in questione ha il sonno pesante, reso ancora più profondo dall’influenza che lo affligge da qualche giorno.

Scende le scale piano, seguito da un rumorosissimo Sdentato e alla fine decide che se Jack non si è svegliato fino a quel momento non si sveglierà più.

Ha bisogno di un po’ di erbe e un po’ di carne per cucinare una zuppa che avrebbe fatto tornare le forze al ragazzo che riposava tranquillo a casa sua.

 

Gli ultimi due anni erano stati quantomeno folli. Prima aveva trovato Sdentato, aveva cercato di convincere il padre che draghi ed esseri umani potevano convivere in pace e nello stesso luogo e proprio quando le cose sembravano essersi sistemate e ognuno aveva trovato una sua nuova normalità – per quanto una vita con i draghi possa essere considerata normale – ecco che gli dei gli avevano lanciato un’altra sfida e un’altra fonte di assurdità nella sua vita.

Una sera d’inverno, mentre stava tornando con Sdentato verso casa avevano visto qualcosa cadere dal cielo. Curiosi come non mai l’avevano seguita, scoprendo che non qualcosa bensì qualcuno, più precisamente un certo Jack Frost, che poteva volare anche senza un drago e faceva apparire neve a suo piacimento.

All’inizio aveva creduto che il dio Loki lo avesse fatto oggetto di uno dei suoi scherzi e delle sue magie, ma no, aveva dovuto accettare che Jack era reale come lui e Sdentato e chiunque altro avesse mai incontrato in vita sua.

Quando Hiccup si era reso conto che Jack non aveva alcuna intenzione di andarsene e che lui non aveva nessuna intenzione di mandarlo via, non era stato facile far accettare a Stoick un altro coinquilino nella loro casa, soprattutto non uno che poteva rendere la loro casa un igloo in un batter d’occhio.

In qualche modo alla fine, l’aveva avuta vinta ma Stoick si era trasferito a casa di Scaracchio finché non avesse trovato un posto per lui.

 

Nonostante non sia proprio un comportamento da figlio modello, Hiccup non può negare che avere la casa per sé, Jack e Sdentato non gli dispiace affatto, anzi.

Una delle cose che più gli fanno sentire appartenenza e senso di benessere è sentire il calore del corpo di sdentato e il freddo che viene invece da quello di Jack.

Ha bisogno di entrambi per stare bene e il pensiero di rinunciare ad uno dei due non lo sfiora nemmeno.

Il fatto che Sdentato abbia accettato di buon grado la presenza di Jack è stata un’altra conferma alla sua decisione di vivere insieme.

 

Sdentato attira la sua attenzione verso uno dei banchetti accanto, dove un pezzo di carne appena affettato giace inerme.

«Ehi Hiccup, sei venuto a fare compere come una brava mogliettina?» chiede il vichingo ridendo appena.

«Ah-ah, mi servono un po’ di carne e delle erbe per una zuppa, jack ha l’influenza.»

«Quindi stai davvero facendo la brava mogliettina. Aspetta qui che ti prendo tutto, mia moglie ha raccolto proprio questa mattina una pianta che farà di sicuro bene al tuo ragazzo»

Il villaggio lo ha accolto bene Jack e anche la loro relazione strana per la quale Hiccup ogni tanto ancora arrossisce.

Non sa quando è stato il momento in cui si è sentito attratto da Jack, sa solo che prima che potesse far qualcosa per allontanarsi era già troppo vicino ed irrimediabilmente legato a lui.

 

Quando torna a casa Sdentato sale le scale velocemente e dopo qualche attimo sente Jack lamentarsi bonariamente.

«Ahhh Sdentato mi hai infradiciato tutta la faccia»

Sorride mentre inizia a preparare la zuppa, con una sensazione di calore nel cuore che non può fare a meno di farlo sentire leggero e al osto giusto.

 

Sale con un vassoio al cui centro c’è una scodella fumante di zuppa e un bicchiere di infuso preparato con le erbe che ha preso quella mattina.

«Ehi», dice non appena vede Jack che lo guarda. La sua pelle di solito così bianca da assumere sfumature bluastre è arrossata sulle guance, conferendogli un aspetto tenero quasi infantile.

«Ehi a te, speravo di svegliarmi con un tuo bacio invece che con quello di Sdentato», dice indicando il drago che gli risponde con un gorgoglio risentito. «Non che io non abbia apprezzato, Sdentato».

Hiccup sorride. «Ti stavo preparando una zuppa per farti sentire meglio», dice un po’ imbarazzato e sente il viso arrossire quando abbassa lo sguardo sul cibo.

«Deve proprio funzionare perché mi sento già meglio»

Hiccup alza lo sguardo e lo vede sorridere con i denti bianchissimi e lo sguardo un po’ stanco ma non per questo meno attraente. 

Si avvicina e gli mette il vassoio sulle gambe sedendosi poi accanto a lui. «Come va la febbre?» chiede avvicinandosi alla sua fronte con le labbra, lasciandole a contatto un po’ di più rispetto al necessario per saggiare la sua temperatura.

Prima di scostarsi gli lascia un bacio delicato e torna a guardarlo negli occhi.

«Sto meglio vero?»

«Un po’»

«Io mi sento già molto meglio»

«Quello perché io sono un abile cuoco, tra le altre cose»

Ridono piano insieme, completamente immersi nella bolla di benessere della loro casa.

«Sei anche un fidanzato perfetto», dice avvicinandosi alle sue labbra piano lasciandovi un bacio casto e leggero, che comunque lo fa rabbrividire.

«Dai, assaggia»

Jack si porta la ciotola alla bocca e beve un sorso di zuppa. «È buonissima», dice prima di prenderne un altro più lungo.

Hiccup lo guarda bere la zuppa, mentre Sdentato si avvicina a loro e gli mette la testa sulle gambe per essere accarezzato.

Jack lo guarda e sorride al drago. «Hai ragione, Sdentato. Hiccup è troppo prezioso per tenerlo solo per me», dice voltandosi poi a guardarlo e accarezzandogli il viso con il pollice, facendolo rabbrividire.

Nonostante la febbre, le sue mani sono comunque gelide.

Hiccup sorride e si bea della sensazione di benessere che gli dà avere la mano fredda di Jack sul viso e la testa calda di Sdentato sulle gambe e pensa che dopo tutti gli anni passati a sentirsi fuori posto e inadatto, finalmente ha trovato il modo di essere sé stesso nel luogo che ha sempre chiamato casa e che ora ne ha assunto davvero il significato.

 



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Fandom: HTTDY
Warning: GEN, ANGST, FLUFF

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Hiccup se ne sta con le gambe che penzolano giù dalla scogliera, davanti a sé il mare è una distesa piatta e regolare.

Il cielo è limpido ed ha il colore chiaro, tendente al grigio, che contraddistingue le regioni come quella dove nasce la sua Berk.

Ci sono stati momenti, durante la sua vita, in cui ha pensato che Berk non era il posto per lui che non avrebbe mai trovato il suo ruolo nella città e che non sarebbe mai riuscito ad essere ciò che tutti si aspettavano lui fosse.

Alcuni di quei pensieri ancora gli affollano la mente di tanto in tanto, come la foschia che a volte copre il mare. Il senso di inadeguatezza però aveva smesso di sentirlo.

Quando pensa a Berk, adesso, pensa alla sua casa, ad Astrid, a sua madre e a…

Un dolore al petto gli impedisce di proseguire il pensiero. Il cuore gli si stringe, il respiro è difficile da regolare e gli occhi gli si riempiono di lacrime.

L’immagine di suo padre gli si staglia davanti agli occhi.

Suo padre. L’uomo che cercava di essere da piccolo, che ha ammirato da adolescente e che lo ha compreso ed accettato quando era ormai un giovane uomo.

Ricaccia indietro le lacrime e tira su con il naso, non ha intenzione di piangere, non di nuovo. Fissa gli occhi sull’orizzonte, tentando di distrarsi, ma la distesa del mare è simile ad una tela sulla quale la mente dipinge ricordi di una vita passata.

Ricorda il primo disegno che ha fatto del padre e il modo in cui lui lo faceva vedere a tutti con orgoglio finché Hiccup non si era fatto abbastanza grande da fargli notare che era imbarazzante.

Ricorda i litigi e le discussioni, la tristezza che sentiva ogni volta che non si sentiva capito e il desiderio di renderlo fiero di lui che ne scaturiva di conseguenza.

Ricorda l’ansia e l’agitazione tutte le volte che usciva in mare e non tornava per giorni.

Ricorda tutti i pomeriggi passanti ad aspettare di vedere delle vele bianche all’orizzonte, la fretta e l’urgenza di arrivare al porto, abbracciarlo e ringraziare il possente Odino di averlo fatto tornare da lui anche quella volta.

Alza gli occhi al cielo immutato e impassibile.

Ricorda tutte le volte che ha chiesto agli dei di ripotarlo da lui, di lasciarglielo vedere ancora una volta, di chiedergli scusa… Sa perfettamente però che non rivedrà più la figura di suo padre scendere da una barca stanco per il lungo viaggio ma sollevato di vederlo.

Non lo sentirà più sgridarlo, consolarlo, consigliarlo perché il cielo era stato ingiusto con lui e come prezzo da pagare per essersi andato a riprendere la madre si era preso la vita di suo padre, in un modo orribile.

I singhiozzi gli scuotono la schiena e le lacrime iniziano a cadere copiose inzuppandogli le guance e i vestiti.

«Mi manchi tanto, papà. Mi manchi un sacco. Berk non è più la stessa senza di te. Io ho bisogno di te, mamma ha bisogno di te. Non sono un bravo leader, non lo sono mai stato. Ho paura di fallire, ho paura di fare un casino dietro l’altro come ho sempre fatto».

Tira su con il naso, asciugandosi il viso alla bell’e meglio con il dorso della mano.

«Ho bisogno dei tuoi consigli. Per favore, per favore torna».

Le parole si perdono nel vento che tira dal mare, scompigliandogli i capelli e asciugandogli le lacrime sul volto. Alza gli occhi al cielo, con il labbro tremante e il petto che si muove aritmicamente.

«Aiutami, non mi lasciare».

Un rumore dietro di sé attira la sua attenzione ed istintivamente cerca di ricomporsi.

Quando si volta però tira un sospiro di sollievo. «Sei tu, Sdentato».

Il drago si avvicina a lui, mettendo la testa sotto la sua mano in una richiesta di coccole. Gli cinge il corpo con la coda e accanto a lui il vento freddo che fino a quel momento lo aveva investito sembra già meno ostile.

Gli accarezza la testa piano, con lo sguardo arrossato e i pensieri cupi. Sdentato gli tocca la gamba con il muso, in una tacita richiesta di spiegazioni e nel tentativo di conforto.

«Non è niente, amico. Mi è entrato solo qualcosa nell’occhio, vedi?»

Tenta di sorridere ma nel momento in cui gli zigomi spingono verso l’alto gli occhi si fanno di nuovo umido e calde gocce salate ricominciano a scorrergli lungo il viso e il collo.

Sdentato lo guarda e sembra triste esattamente come lui. Con il muso gli accarezza una gamba e con la coda lo stringe un po’ di più.

«Sono patetico vero? Dovrei essere una guida per Berk e invece riesco solo a piangere. Sono una nullità, come sempre».

Sdentato ringhia gutturale e poi attratto da qualcosa lontano, volta la testa e corre verso qualunque cosa lo abbia attratto.

«Fantastico, annoio persino il mio drago», pensa sarcastico.

 

Le lacrime si sono fermate quando sente correre verso di sé e voltandosi vede arrivare Sdentato con un pezzo di arrosto in bocca, che gli lascia sulle gambe insieme a buona parte della sua saliva.

«Sdentato, cosa hai fatto? Di sicuro avrai fatto arrabbiare qualcuno», ma un sorriso inizia a dipingerglisi in volto e il cuore sembra d’un tratto più leggero.

Il drago lo guardo con gli occhi dolci aspettando che lui mangi il prezioso regalo che ha recuperato apposta per lui.

«E va bene, e va bene. Lo mangio.».

Dà un morso all’arrosto ma è praticamente rovinato dalla saliva del drago quindi decide di lasciare da parte il resto.

«Grazie, amico. Era veramente buono».

Lo accarezza sotto il muso e dietro le orecchie e Sdentato gli salta addosso leccandogli la faccia felice.

Hiccup ride di gusto, solleticando il suo migliore amico e sciogliendo i macigni di lacrime che gli si erano messi sullo stomaco ad ogni risata di più.

Finché non ne rimase che un tenue ricordo.

«Va bene, va bene. Dai, adesso basta Sdentato» cerca di fermarlo tra una risata e l’altra. Il drago lo guarda e chiude gli occhi quando lui gli mette una mano sulla fronte.

Anche se gli dei gli hanno portato via il padre, hanno anche fatto in modo di fargli incontrare Sdentato e riavere indietro sua madre e riuscire a convincere gli abitanti di Berk ad accettare di vivere con le creature che prima ammazzavano.

Stoick gli sarebbe mancato per sempre ma non avrebbe permesso alla sofferenza di fargli perdere le cose bellissime che di lì in poi gli sarebbero capitate.

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Fandom: I Medici
Warning: AU, GEN, ANGST, Omegaverse

Questa storia partecipa al cow-t 9 di Lande di Fandom


Francesco cavalca veloce spronando il cavallo con la voce e con i tacchi.

È scappato dalla festa, è dovuto scappare. Ricorda solo che ad un certo punto ha iniziato a sentirsi strano, a sentirsi soffocare e sopraffare dagli odori di tutti gli alpha presenti nella sala.

Ricorda lo sguardo terrorizzato di Guglielmo, gli occhi sgranati e l’espressione che non lascia spazio all’interpretazione.

In pochi secondi è fuori, sta sellando il cavallo e le mani gli tremano per la fretta, per l’ansia e per la confusione.

Sente dei passi dietro di sé e nell’agitazione generale non si accorge subito che è Guglielmo, anche se il suo odore è sempre quello muschiato e leggero che c’è in campagna dopo un acquazzone estivo.

«Che è successo? Perché non riuscito a nascondere il tuo odore?»

«Non lo so», risponde cupo e perso nei suoi pensieri.

«Ti copro io con nostro zio. Non ti preoccupare».

 

Le parole del fratello minore gli rimbombano nelle orecchie insieme al rumore degli zoccoli sullo sterrato.

Avrebbe voluto essere lui quello pronto a proteggerlo, avrebbe voluto essere lui a prendere tutto il peso sulle spalle, non avrebbe mai voluto essere una preoccupazione per lui.

La volontà, però, spesso non basta, Francesco lo aveva imparato a 13 anni, quando il suo corpo aveva iniziato a cambiare e a nulla erano serviti i suoi sforzi per non cedere alle pulsioni e ai bisogni che gli chiedeva.

Fortunatamente il sangue dei Pazzi ha un odore inconfondibile, a detta di tutti, e nessuno si era mai insospettito troppo, complice anche il fatto che Guglielmo lo accompagnava da sempre in tutte le sue apparizioni pubbliche, attirando su di sé i dubbi.

Chi avrebbe mai sospettato del primogenito cresciuto ad immagine e somiglianza dello zio, se accanto c’era il fratello dall’aspetto delicato quanto il carattere?

Insieme erano riusciti a tirar su quel teatrino e a portarlo avanti. Quando anche Guglielmo compì l’età per il passaggio all’età adulta, rivelandosi un beta, non ci furono più dubbi circa il fatto che gli odori più forti che sentivano di solito erano dovuti a lui e al suo essere qualcosa a metà.

 

Il senso di colpa lo riempie nuovamente, come acqua che entra a fiotti nella falla di una nave che sta affondando. Vorrebbe potersi dire che in realtà ci è abituato, che anche questa volta passerà e lui tornerà ad essere quello di prima, almeno fino al prossimo attacco.

Il casolare di campagna dove si nasconde appare finalmente all’orizzonte, al di là della collinetta che lo protegge. Francesco scende quasi al volo quando arriva davanti la palizzata dove lega il cavallo, dandogli da mangiare e da bere.

Ha il fiatone, è sudato ed ha caldo. Senza pensarci, con il viso serio e privo di emozioni si dirige verso il torrente che scorre lì vicino.

Saggia con una mano la freddezza dell’acqua: è gelida, ma questo non lo ferma.

Inizia a spogliarsi fissando il proprio riflesso nello specchio liquido dinanzi a sé. L’immagine restituita rappresenta un uomo nel fiore dei suoi anni, le spalle dritte e forti, il corpo asciutto e allenato, l’espressione dura e la bocca tesa, una ferita in mezzo al viso con gli angoli che tendono leggermente verso il basso.

Se non fosse per la vena malinconica al fondo degli occhi stenterebbe a riconoscersi.

All’apparenza è diventato esattamente ciò che tutti si aspettano da lui, ciò che suo zio Jacopo si aspetta da lui, ma nella sostanza, sotto tutti quei veli che ha tirato su per coprirsi, cos’è davvero?

L’alpha deciso e serio che tutti credono lui sia o l’omega fragile e bisognoso di attenzioni che sa di essere?

Porta avanti da così tanto quella recita che non sa quali dei due suoi aspetti è quello che lo caratterizza davvero. La figura alla quale si è votato, che ha coltivato, alimentato, ridefinito oppure quella che gli è cresciuta nel petto senza che lui vi prestasse mai attenzione e che ha sempre tentato di soffocare?

Si passa una mano sul volto ed ingoia a vuoto. È completamente nudo, non c’è anima viva intorno a lui e nonostante tutto se qualcuno lo vedesse da lontano non lo scambierebbe mai per un omega.

Perché allora proprio a lui è toccata questa sorte?

E se il suo destino è quello, perché dargli la possibilità di negarsi così tanto da riuscire a tenere a bada anche l’odore del suo corpo e farlo assomigliare a quello tanto agognato?

A volte avrebbe preferito non essere mai riuscito ad ingannare lo zio.

A volte aveva desiderato di essere scoperto subito.

Portare avanti due vite lo aveva strappato dentro e adesso rischia di spezzarlo in due del tutto.

 

Blocca i pensieri tuffandosi in acqua. Milioni di minuscoli aghi gli si conficcano nella pelle. Non è ancora primavera, l’acqua è gelida ma negare le pulsioni e i bisogni del suo corpo ormai gli viene spontaneo, come chiudere gli occhi al cospetto di una luce forte e accecante.

Una, due bracciate, poi tre.

L’acqua fredda a momenti sembra bloccargli l’aria nei polmoni, ma non succede mai davvero.

Quattro, cinque.

Forse prima o poi riuscirà a negarsi così tanto da dimenticarsi di sé stesso ed abbracciare solo ed unicamente ciò che gli altri vogliono lui sia.

Sei, sette, otto.

Riuscirà, un giorno o l’altro, a scostare il velo dietro al quale ha nascosto la sua vera natura senza aver timore di trovarsi davanti sé stesso e a rinnegarsi, non riconoscendosi nella figura seduta a terra con le gambe raccolte che cerca di tenere insieme i pezzi della propria anima.

E in quel giorno, cancellerà per sempre ciò che è stato. Ciò che la natura gli ha fatto. Perché lui è un Pazzi e i Pazzi sono alpha da generazioni e non sarà di certo lui il primo a venire meno alle tradizioni di famiglia.

Fino a quel giorno, continuerà a lottare contro sé stesso, recidendo ogni più piccolo legame che collega ciò che deve essere con ciò che probabilmente è davvero. A costo di ferirsi, a costo di mutilarsi l’anima.

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