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La storia segue le vicende di Pietro Micca (Alessio) torinese che perse la vita durante l'assedio di Torino nel 1706 ad opera dei francesi
Questa storia partecipa al cow-t9 di Lande di Fandom
Verrua (Torino), 8 aprile 1705
L’aria è spessa e densa a causa della terra mossa dall’ultimo colpo che ha buttato giù le mura definitivamente e dalla polvere delle fortificazioni sbriciolate. Ancora si sentono i mattoni cadere e ruzzolare a terra come una cascata incessante. Le grida degli uomini, dell’uno e dell’altro schieramento, si mescolano tra di loro e tra la cacofonia di lame che si incrociano, colpi di baionetta e carne lacerata.
Il Duca di Savoia Vittorio Amedeo II respira velocemente, stanco per le ore di battaglia e agitato per la fine del baluardo di difesa che erano riusciti a mettere su con pochissimo preavviso.
«Dobbiamo andare, Sua Altezza», lo informa uno dei suoi sottoufficiali, «Non possono trovarvi qui, è troppo pericoloso», l’urgenza nella sua voce non rispecchia l’espressione del volto che invece sembra calma e seria.
Vittorio Amedeo si limita ad annuire con convinzione, salendo finalmente sulla carrozza che è venuta a prenderlo non appena l’esito della battaglia è stato chiaro a tutti: Verrua è caduta, la prossima tappa dell’esercito francese sarà Torino.
«Dai l’ordine di ritirarsi, chiunque sia riuscito a salvarsi venga a Torino».
«Sissignore».
«Soprattutto uomini ancora in grado di combattere, sottoufficiale».
L’uomo si porta una mano alla testa e si mette sull’attenti. Ha recepito il messaggio e lo porterà a termine. Il Duca ricambia con un’espressione di uguale determinazione. Riusciranno a respingere i francesi, farà di tutto affinché questo avvenga.
Sale sulla carrozza che riparte a tutta velocità schivando gli ostacoli sparsi ovunque nella città, trasformatasi ormai nel campo di battaglia.
Il cocchiere sprona i cavalli con frusta e parole e lui si lascia andare sul sedile, abbandonandosi appena alla stanchezza che inizia a prendergli le membra ora che l’adrenalina per la battaglia si sta affievolendo.
Perde lo sguardo sull’orizzonte di campi che scorrono veloci che si vede al di là della finestrella, per un attimo e solo per uno, si lascia trasportare dall’ipotesi di non essere insorti contro la Francia dopo l’attacco alle truppe mandate in loro aiuto, forse avrebbe potuto trovare un’altra soluzione, avrebbe potuto risparmiare la vita di moltissimi dei suoi sudditi.
Avrebbe potuto, ma a quale costo?
Quello di vedere Torino e tutto il duro lavoro della sua famiglia cadere nelle mani dei francesi che si erano dimostrati così irrispettosi del loro stesso aiuto? No, non lo avrebbe permesso.
Se la conclusione di tutto ciò che sta accadendo non è altro che il dominio francese sul ducato su cui lui e i suoi antenati hanno buttato sangue, tempo e passione, non permetterà che accada senza aver combattuto fino allo stremo delle forze, finché non potrà dire di aver tentato tutto persino l’impossibile.
A Verrua hanno appena perso, non solo un buonissimo avamposto, ma anche uomini e forse un briciolo di speranza, ma di certo i francesi hanno perso di più – più uomini, più tempo, più speranza – e di questo ne è più che sicuro.
Guarda il suo valletto e con rinnovata forza d’animo gli rivolge il suo ordine. «Scrivi una lettera a mio cugino, voglio che sappia che Verrua è caduta e ci apprestiamo a fare di Chivasso il prossimo avamposto, nella speranza di ritardare ancora l’esercito francese. Esortalo ad arrivare il prima possibile, gli uomini iniziano a scarseggiare».
Il valletto annuisce e frenetico cerca di attrezzarsi come può per scrivere in maniera più chiara ed efficiente possibile nonostante i salti continui della carrozza e l’inchiostro che gli sporca gli abiti.
Il Duca non accenna a proferir parola, la situazione non permette di ritardare la comunicazione di un solo secondo. Hanno bisogno dell’esercito di Eugenio di Savoia al più presto o non riusciranno a fermarli.
*
Torino, 13 ottobre 1705
Il sole è freddo e non scalda la pelle, ma si infrange sui muri chiari di Palazzo Madama trafiggendone le vetrate che sembrano risplendere più del sole stesso.
Alessio preme le mani in tasca, non è ancora iniziato il rigido inverno torinese ma un’aria fresca e rigida tira ogni tanto facendolo rabbrividire appena.
È piena mattina e la città è in fermento, arrivano voci circa il campo che i francesi stanno costruendo a Venaria Reale. Qualcuno dice che i francesi stanno scappando impaurititi dall’esercito del Principe Eugenio che viene in loro soccorso, altri dicono che hanno iniziato a combattere tra di loro, altri ancora dicono che Torino è comunque spacciata e che presto tutti mangeranno baguette a colazione.
Alessio dal canto suo non crede a nessuna di quelle voci. Durante quel periodo di guerriglie e resistenza all’esercito francese ha imparato che agli uomini piace parlare e che le voci si ingigantiscono veloci come il Po quando piove.
Finché il Duca Amedeo II non avrebbe fatto un annuncio ufficiale lui non avrebbe creduto a nessuna delle voci che girano tra i suoi concittadini.
A ridosso di Porta Palazzo è stato allestito un ospedale di campo, dove ci sono tutti quelli arrivati dall’assedio di Chivasso, terminato qualche mese prima.
Molti sono già morti, altri si attaccano alla vita con le unghie e con i denti a costo di patire indicibili sofferenze. Alessio non giudica né gli uni né gli altri, quando la morte arriva l’uomo si rivela per ciò che egli davvero è a prescindere da ciò che è stato in vita.
Il forno non dista molto e per le strade strette già si sente odore di pane appena sfornato e brioches. Il profumo lo avvolge e gli riempie il cuore, in tasca non ha molto, la guerra si è portata via anche quello oltre a tanti dei suoi amici e conoscenti.
«Buongiorno, Alessio».
Il fornaio è un uomo anziano, con il viso raggrinzito dall’età e il sorriso coperto da un paio di baffi folti e grigi. «Che ti do oggi?»
«Salve, Carlo», dice sorridendo e ponendo lo sguardo sul banco dove qualche brioches fumante attende di essere comprata e un paio di pagnotte di pane giacciono invitanti.
«Prendo due di queste e…», guarda le monete che ha in mano e ci ripensa, «Facciamo che prendo una brioche e mezza pagnotta».
«Sei sicuro? Oggi vanno a ruba».
«Sicuro, non voglio abituarmi troppo alla bella vita prima della guerra».
«Hai sentito che si dice?»
«Ho sentito tante cose».
«Pare che i francesi si stiano ritirando».
«E perché mai dovrebbero farlo?» chiede scettico prendendo il sacchetto dalle mani dell’uomo.
«Che ne posso sapere io? Ti sembro un francese puzzolente?»
Alessio ride appena. «Nessun francese saprebbe fare il pane come te, Carlo».
«L’hai detto, ragazzo. L’hai detto».
Lo saluta cordiale e gira sui tacchi per tornare verso casa.
Alza lo sguardo verso il cielo celeste chiaro, vorrebbe davvero che i francesi se ne tornassero al di là delle Alpi, ma sa anche che non funzionano così gli assedi e che se si sono spinti fin lì non rinunceranno molto presto.
Lascia che lo sguardi si sposti lungo le stradine torinesi, soffermandosi sui visi pallidi dei suoi concittadini, sulle piazze grandi e sulle strade lunghe dove, nonostante il clima non proprio allegro dei quei giorni, la gente sta cercando in tutti i modi di mandare avanti la propria vita.
Stringe nella mano il sacchetto, il cielo è di un colore strano, i contadini dicono che quando è così sta per cambiare il vento e qualcosa di nuovo sta per entrare nella tua vita. Di solito per loro è una pioggia fitta che irriga finalmente i campi dopo la siccità estiva. Per Alessio, chissà, magari una novità.
Quando passa nella piazza antistante il Palazzo Reale si rende conto che un fermento particolare la sta animando.
Un valletto di corte è in piedi – su un rialzo in legno probabilmente – e un nugolo di persone lo accerchia.
Alessio si avvicina interessato dalla singolarità dell’evento, con passo calmo ma sguardo attento, riesce a cogliere il discorso solo da metà.
«…Sua Maestà il Duca di Savoia, chiede ai suoi concittadini di riunirsi nel piazzale antistante il Palazzo per una riunione cittadina di estrema importanza».
Alessio sgrana gli occhi. Cosa può essere successo se addirittura il Duca in persona si abbassa a parlare con loro. È vero anche che alcuni superstiti di Verrua gli hanno detto che il Duca non si è risparmiato in quell’occasione e che è spesso stato in prima linea a spronare gli uomini e dare ordini. Alcuni dicono addirittura che se non fosse stato per lui non avrebbero retto così tanto.
Lui rimane scettico. Sa quanto i ricordi possano essere confusi in battaglia e non ha mai avuto una grande stima dei reali, non che abbia qualcosa contro Vittorio Amedeo in persona, semplicemente non si fida. Anche se al momento – quasi sicuramente per motivi profondamente diversi – hanno lo stesso interesse: non vedere Torino cadere nelle mani francesi.
«Si sa già che vuole dirci il Duca?»
A parlare è stato un uomo nella folla con un accento piemontese marcato, dalla parte opposta rispetto ad Alessio che non ha fatto in tempo ad individuarlo.
«Lo saprete a tempo debito. Presentatevi qui all’orario pattuito e spargete la voce».
Il valletto scende dal sostegno e la folla inizia a disperdersi. Sulla bocca di tutti ci sono parole di curiosità, opinioni circa quanto può o meno voler comunicare il Duca ai suoi sudditi, espressioni confuse.
Un ragazzo invece di disperdersi come gli altri si avvicina al valletto. Ha un portamento più signorile rispetto al resto delle persone che Alessio vede di solito, le spalle sono dritte, il corpo così esile che sembra non aver mai visto un giorno di lavoro, i vestiti puliti.
Alessio rimane a fissarlo. Lo vede parlare con il valletto avvicinandosi solo un poco con il busto, come a protendersi verso di lui per cogliere meglio le sue parole o forse per provocarlo, non saprebbe dire quale delle due.
Il valletto lo guarda per un attimo incerto poi gli dice due parole e se ne torna veloce verso il Palazzo.
Appena esce dal suo campo visivo, il ragazzo smette l’atteggiamento che ha avuto fino a quel momento e rilassa le spalle curvandosi su sé stesso. Il sorriso sparisce e lo sguardo diventa serio e concentrato.
Sembra quasi preoccupato, valuta Alessio.
«Che hai da guardare?»
Alessio si riscuote e vede che il ragazzo si sta rivolgendo a lui. Ha lo sguardo di sfida ma non è così aggressivo come forse vorrebbe fare intendere.
«Che ti ha detto il valletto?»
L’altro lo guarda a lungo, come per esaminarlo e constatare se si può o meno fidare di lui.
«Che saprò che vuole il Duca quando il Duca stesso me lo dirà», risponde con un tono seccato.
Alessio rilascia un respiro che non si accorto di trattenere, sente un briciolo della tensione che stranamente gli ha preso le spalle allentarsi.
«Il Duca sa cosa è meglio per noi, anche quando e come dobbiamo morire», risponde Alessio con il tono palesemente sarcastico ed esagerato, mentre si esibisce in una riverenza verso il Palazzo Reale.
Al ragazzo sfugge una piccola risata he subito viene soffocata da una mano ed un colpo di tosse, ma Alessio l’ha notata e come, così come ha notato i suoi occhi farsi piccoli sotto la spinta degli zigomi e brillare per un attimo.
«Dicono che i francesi si stanno ritirando», continua Alessio riacquistando serietà e cercando di riportare inconsciamente l’attenzione dell’altro su di lui.
«E tu ci credi?»
La domanda è stata posta a seguito di una risata scappata dalle labbra piene e un sopracciglio alzato.
«Direi di no».
«Esatto».
Il ragazzo si guarda intorno alla ricerca di qualcosa o forse di qualcuno. «Immagino lo sapremo oggi pomeriggio», e fa per andarsene.
«A che ora ha detto, già?», gli dice a voce leggermente più alta Alessio per raggiungerlo ora che si sta allontanando a grandi falcate.
«Alle quattro, davanti al Palazzo di Città», gli dice senza girarsi.
La campana della chiesa suona per la messa del mezzogiorno e Alessio si affretta a prendere via Po, per raggiungere casa sua. In mano ha ancora stretto il sacchetto con la brioche che ormai si sarà raffreddata e la pagnotta di pane.
Lungo la strada incontra volti che conosce da che ha memoria e persone che conoscevano suo padre prima di lui.
Quante di loro riconoscerà ancora dopo che i francesi se ne saranno andati?
Quanti di loro hanno perso qualcuno in quell’assedio che già dura da un anno?
Quanti di loro riconoscerà se i francesi non se ne andranno affatto e prenderanno possesso non solo della sua città, ma anche del suo stile di vita, dei suoi ricordi della sua famiglia?
«Papà».
Una bambina con i capelli nero corvino, raccolti in piccoli codini, gli corre incontro con il sorriso pieno. Porta un vestitino azzurro, rammendato in più punti con maestria. Gli si butta addosso e lui si piega per prenderla sotto le braccia e sollevarla.
Lei gli mette le manine sul viso e lo stringe felice. «Papà mi sei mancato».
«Ti sono mancato? Sono stato via solo qualche ora»
«Mi sei mancato lo stesso», dice la bambina mettendo su il broncio.
«E cos’è quel musetto? Ti sei arrabbiato con tuo padre?»
«Sì, papà. Devi farti perdonare».
Alessio ride appena e varca la soglia di casa con la bambina ancora in braccio. «Non credi che la stiamo viziando troppo nostra figlia?» domanda alla moglie che sta pulendo un pollo che sarà il loro pasto per qualche giorno.
«Sei tu che la vizi se continui a prenderla in braccio, ormai è grande», dice la donna che ha gli occhi scurissimi, così come i capelli.
Alessio si abbassa per lasciarle un bacio fugace con la bambina ancora attaccata al collo.
«Ho preso mezza pagnotta da Carlo», dice posando il sacchetto sul tavolo davanti la moglie, «E nel sacchetto c’è una sorpresa per questa bimba».
La bambina, che Alessio ha rimesso con i piedi a terra poco prima, si porta le manine alla bocca in un’espressione stupita che gli fa ridere il cuore.
«Guarda qui», dice mettendole davanti la brioche davanti agli occhi che la bambina sgrana per la sorpresa. Guarda la mamma prima di prenderlo e vedendo che anche lei sta sorridendo l’afferra e se la porta alla bocca tirando un morso.
Alessio sorride felice. «Lasciane un po’ pure per mamma».
La bimba annuisce e tira un altro morso.
Alessio e Maria sorridono felici guardando loro figlia e poi portando lo sguardo sull’altro.
«Com’è andata oggi?», chiede Maria con gli occhi perdono la lucentezza che c’era stata fino a poco prima.
Alessio scuote la testa. «Nessuno costruisce più nulla», risponde semplicemente, deluso e affranto. «Con la guerra alle porte chi vuoi che pensi a costruire», lo dice più a sé stesso che a sua moglie, come un mantra che si è ripetuto troppe volte.
«Ho parlato con Anna, ha detto che mi può girare qualche lavoro che le arriva, che lei ha da pensare al bambino e non sempre ha tempo. Non è molto, però…»
Alessio espira sonoramente, non è per la moglie, è per la situazione. Lavoro da muratore per lui è da un po’ che non ce n’è e si deve arrangiare a fare ciò che gli capita, quando capita.
Riescono a crescere Marinella come si deve solo per l’aiuto che si danno l’un l’altro con i vicini di casa. Quando c’è bisogno non esistono dissapori o litigi e quando la guerra bussa alle tue porte c’è sempre bisogno, non solo di conforto morale, ma anche e soprattutto di un aiuto pratico.
Alessio ha perso il conto di quante volte hanno diviso il loro pasto con qualcuno che in quel momento non ce l’aveva e allo stesso modo i loro vicini fanno con loro.
Si lascia praticamente cadere su una sedia, Maria gli stringe una mano.
«Non ti preoccupare, ce la faremo».
Alessio ricambia la stretta e le sorride. «Oggi il Duca farà un annuncio, lo strillone ha detto di spargere la voce. Vado a sentire che dice».
Maria annuisce. «Girano tante voci».
«Le ho sentite anche io».
Il discorso termina e nessuno dei due ha l’animo di farne partire un altro. Maria torna a preparare il pranzo, Alessio si dedica ad un lavoro di falegnameria che stava portando a termine ma non essendo il suo campo sta venendo davvero male.
Le quattro arrivano più velocemente di ciò che si aspettasse. Marinella sta dormendo, mentre Maria cuce e alza lo sguardo quel tanto che basta per guardarlo uscire.
Il cielo è ancora chiaro ma il pomeriggio ha portato con sé qualche nuvola e l’aria si è irrigidita ancora. Si stringe tra le spalle e accelera il passo.
La piazza davanti Palazzo di città è gremita di persone di tutte le estrazioni sociali, ma soprattutto i mendicati della zona vicina, piena ormai di tutti coloro che a causa della guerra hanno perso la casa, un lavoro e pure qualche arto.
Alessio tenta di infilarsi tra la folla per guadagnarsi un posto più vicino. Si guarda intorno e riconosce qualche volto noto, ma colui che cerca non lo vede.
Il Duca Vittorio Amedeo arriva in sella al suo cavallo da via di Porta Susina con al seguito due ufficiali dell’esercito a cavallo.
La folla smette immediatamente di parlare, come se solo con la sua aura il Duca avesse intimato a tutti di tacere.
Si posiziona al centro della piazza, proprio davanti a loro e quelli ai lati si stringono naturalmente attorno alle tre figure a cavallo.
«Concittadini, come sapete i francesi si sono stanziati alla Venaria Reale, iniziando a costruire un campo da usare come base per l’assedio di Torino».
Un brusio si sparge tra la folla. Li ha fatti chiamare per dir loro ciò che già sanno?
«Ciò che forse non sapete è che si stanno ritirando nei quartieri invernali».
Il brusio adesso si trasforma in una voce che gira veloce di bocca in bocca.
«Siamo liberi?»
«Si sono arresi?»
Il Duca alza la mano per richiedere il silenzio prima di ricominciare a parlare. «Questo non vuol dire che la battaglia è finita. Vuol dire solo che ci sottovalutano, ancora una volta non ci reputano alla loro altezza o abbastanza determinati da tentare il tutto e per tutto contro di loro».
Il Duca ha la completa attenzione della piazza, nessuno fiata più. Tutti gli sguardi sono su di lui.
«Il Generale La Feuillade ha oggi stesso deciso ed accordato una tregua di sei mesi per passare l’inverno in pace e al caldo delle nostre case, prima di riprendere l’assedio con più forze armate e con meno stanchezza. Ciò che non sa però è che noi questo inverno non ce ne staremo in panciolle ad aspettare vengano a bussare alla porta di casa di nostra fino a buttarla giù. Non gli permetteremo di entrare nelle nostre case, prendere il nostro cibo, le nostre mogli, sorelle e figlie, perché noi questo inverno lavoreremo senza sosta per erigere delle difese che i francesi non possono sognare neanche nei loro sonni più rosei. Questo inverno costruiremo rinforzeremo le nostre mura e scaveremo la nostra terra per dimostrare in primavera di cosa sono capaci i cittadini di Torino!»
Un urlo coesa è la risposta a quelle parole. Alessio si guarda intorno e lo sguardo dei suoi concittadini è acceso dal fuoco che arde nelle parole del Duca.
«Ogni torinese e chiunque sia giunto a Torino per colpa della guerra che ha forza di lavorare è perciò chiamato a prestare le sue mani, le sue braccia e la sua schiena per l’opera che proteggerà noi stessi, le nostre famiglie, le nostre case e la nostra città dai francesi. Ad ognuno sarà accordato un salario giornaliero a seconda del lavoro che potrà prestare».
Le ultime parole del Duca servono ad incendiare gli animi dei cittadini più restii. Tutti levano un grido di gioia verso Vittorio Amedeo II che li sta portando a morire ma dando loro soldi.
Alessio non si lascia coinvolgere dall’entusiasmo serpeggiante ma l’ultimo annuncio è come una benedizione dal cielo, perciò si mette in fila per dare il proprio nominativo e mettersi al servizio della guerra.
«Le voci che giravano oggi avevano ragione in parte».
Un tono di voce noto ma che non riesce subito ad inquadrare attira la sua attenzione. Si volta e la prima cosa che nota sono i capelli biondi che non saprebbe dire precisamente di che sfumatura siano, perché ne hanno così tante all’interno che non riesce a decidersi.
Il ragazzo di quella mattina è accanto a lui ma non lo guarda, tiene lo sguardo fisso davanti a sé sul Duca che si sta apprestando a tornare ai suoi doveri.
«Ti arruoli anche tu?»
«Ho scelta?»
Alessio non risponde, si guarda intorno e vede che chiunque in realtà sta andando a mettere il suo nome su quel pezzo di carta, nessuno può permettersi di rifiutare un salario giornaliero in quei giorni.
«Sono venuto anche per mio fratello», continua indicando con il mento un ragazzo poco distante, sembrano avere più o meno la stessa età e Alessio dall’aspetto non saprebbe dire chi sei due è il più grande ma a giudicare dall’atteggiamento quello che gli è accanto è di sicuro il maggiore.
«Siete entrambi giovani», constata Alessio.
Il biondo alza un sopracciglio ma non poi lo riabbassa e assume un’espressione seria. «Per la guerra non si è mai troppo giovani».
Alessio annuisce. La guerra quella volta è venuta a bussare alle loro porte e minaccia di radere al suolo tutto ciò che conoscono così come lo conoscono nel giro di poco tempo. Per quanto non sia felice della situazione attuale non c’è molto altro che può fare se non dare il proprio contributo.
«Come credi che rinforzeremo le mura?» chiede il ragazzo.
Un signore davanti a loro si volta e gli risponde al suo posto. «Hanno chiamato un uomo di cultura, il signor Bertola. Dicono che se ne intenda di fortezze e che abbia delle idee che faranno tornare i francesi dritti nelle gonne delle loro madri a piangere», sghignazza alla fine e loro con lui.
«Fortuna che ci sono gli uomini di cultura, allora».
«Fortuna, sì, giovanotto. Fortuna sì».
Alessio li guarda scambiarsi quelle poche battute, affascinato inspiegabilmente dal biondo accanto a lui. Dal modo in cui mette le labbra mentre ascolta l’altro e dal modo in cui si lecca il labbro inferiore prima di parlare.
Il ragazzo si volta e gli sorride complice. Un sorriso simile si dipinge sul suo volto.
«Tu come ti chiami?»
«Alessio Micca»
«Che sai fare?»
«Sono un muratore»
«Bene, ti mettiamo a scavare i rami di contromina e le gallerie allora. La paga è di 2 lire al giorno, si comincia da domani alle sette. Se non sai scrivere metti una croce»
Alessio firma il foglio e prende per sé quello di impiego, si sposta dalla fila e piega il foglio per metterlo al sicuro in una tasca.
Aspetta qualche attimo e il ragazzo biondo lo raggiunge, seguito dal fratello. Adesso che li guarda uno accanto all’altro non si assomigliano per nulla.
Il biondo ha dei lineamenti molto più sottili, quasi nobili, se fosse vestito come si deve forse si confonderebbe addirittura tra di loro, l’altro invece è più basso e tarchiato, ha il naso schiacciato e gli occhi piccoli. Non è né brutto né bello, né particolare. È un torinese come se ne vedono tanti.
Suo fratello invece ha quel qualcosa in più che lo rende diverso, come se avesse un piedistallo a metterlo naturalmente un gradino più in alto rispetto a tutto il resto.
«Lui è mio fratello Vittorio», dice il biondo interrompendo i suoi ragionamenti.
«Alessio, piacere», dice stringendogli la mano.
«Alessio. Solo adesso vengo a conoscere il tuo nome», dice con un sorriso aperto, «Io sono Gennaro», conclude porgendogli la mano che Alessio stringe con la sua.
«Adesso siamo entrambi al servizio della guerra ed entrambi abbiamo un salario giornaliero. Andiamo a spenderne un po’ all’osteria?»
Alessio sorride, dovrebbe tornare a casa ma una visita all’osteria non se la nega. Annuisce e gli fa strada.
«Vittorio tu torna pure a casa. Ti raggiungo a breve»
Il più piccolo annuisce e se ne va salutandoli.
Alessio si ritrova accanto a lui con un leggera sensazione di disagio, non sa perché si senta in quel modo. Probabilmente per il movimento delle sue dita affusolate sul bicchiere di vino che stanno bevendo, o forse per il modo in cui le sue palpebre si chiudono sempre di più ad ogni sorso o magari per le gocce rubino che di tanto in tanto si fermano sulle sue labbra inumidendole e rendendole ancora più attraenti.
Sono nell’osteria da più di un’ora, valuta Alessio e ancora non si è stancato di sentirlo parlare di sé stesso e della sua vita.
Dice che si è trasferito a Torino da poco, da quando ha scoperto che suo padre aveva dato al mondo un altro figlio con un’altra donna. Una volta che loro padre è morto Gennaro ha deciso di venirlo a trovare e stabilirsi qui insieme a lui.
«Tu invece? Qual è la tua storia?»
Alessio si lecca il labbro inferiore per raccogliere le idee in mezzo alla prima confusione datagli dal vino bevuto.
«Non c’è poi molto da dire, sono figlio di un muratore. Per un periodo della mia vita ho vissuto nelle campagne intorno a Torino, poi mi sono trasferito qui dopo…», si ferma e non sa perché, è stato un riflesso condizionato, un qualcosa che ha risuonato al fondo della sua coscienza. «Dopo che nel mio paese non si è trovato più lavoro. Speravo che qui se ne trovasse di più, ma mi sono ritrovato a dover scavare la terra piuttosto che costruire case».
Gennaro lascia il bicchiere sul tavolo tra di loro e si appoggia ad un braccio mentre con lo sguardo lo studia. Alessio si sente completamente spoglio davanti a lui e spera che non capisca la parte della sua vita che sta cercando di omettere.
«Io sono stato assegnato alla costruzione di un’opera in superficie, ma non so a che serva sinceramente»
«Ti hanno preso ai lavori pesanti anche se sembri non poter sollevare una trave di legno?»
La frase la dice ridendo, è ironica ma in realtà deriva da una vera e proprio curiosità, per non dire preoccupazione.
In risposta Gennaro alza un sopracciglio, si sporge verso di lui sul tavolo e solleva un angolo della bocca. «Non hai idea dei lavori che ho portato a termine nonostante il mio aspetto, non sottovalutarmi».
Non sa se è una minaccia, un avvertimento, un modo per rispondere alla sua battuta con un’altra, sa solo che nel momento in cui si è avvicinato si è ritrovato a fissare i suoi occhi senza possibilità di staccarvisi e sulle sue labbra ha sentito il sapore e la leggera spinta del suo fiato caldo e pregno di vino.
Rimangono a guardarsi per un tempo che ad Alessio sembra infinito eppure troppo breve, avrebbe voluto rimanere a sentire il suo respiro sulle labbra finché non si fosse abituato al suo sapore, diventando il proprio.
Quando si staccano Gennaro butta giù l’ultimo sorso di vino e poi si alza barcollando appena.
«Devo rientrare. Mio fratello mi aspetta».
Alessio annuisce ed escono insieme dopo aver pagato l’oste.
Il sole è ormai calato da varie ore, il cielo è scuro e in cielo oltre la luna ci sono varie stelle.
Non riesce a cogliere a pieno l’espressione con la quale lo sta guardando perché al buio riesce solo a scorgere uno sbrilluccichio in corrispondenza dei suoi occhi.
Lo sente però avvicinarsi così tanto che per un attimo ha il timore che le loro labbra si possano toccare ma non accade perché Gennaro si sposta leggermente di lato e finisce per sfiorargli la guancia con le labbra, segnando una scia fino al suo orecchio.
«Ci vediamo domani, allora», gli sussurra piano, per poi scostarsi e superarlo senza dirgli nient’altro.
Alessio rimane immobile per attimi interi prima di ritrovare la forza di far muovere anche solo un muscolo e di incamminarsi verso casa.
Fatica a mettere in ordine gli avvenimenti della giornata, un po’ per l’alcool, un po’ forse per l’assurdità si alcune situazioni e di alcune sue risposte a queste.
Sulla strada che lo divide da casa evita ostinatamente la domanda che in realtà vorrebbe farsi ma che sa che non avrebbe risposta.
Apre la porta piano, sperando di non svegliare moglie e figlia. La casa è avvolta nel buio eccetto per la e braci che ardono quasi sopite nel camino e la luce di una candela che rischiara appena il volto di sua moglie.
«Pensavo tornassi per cena».
«Il discorso ha creato un gran fermento, alla fine ci siamo riuniti con alcuni degli uomini a parlare dell’assedio imminente che ci travolgerà».
«Quindi non è vero che si sono ritirati», la voce di Maria è piena di preoccupazione e paura.
Alessio scuote la testa. «Ci hanno lasciato l’inverno, in primavera attaccheranno»
«Era questo che voleva dirvi il Duca?»
«Offre a tutti un lavoro per fortificare le mura e permetterci di resistere ai francesi una volta che attaccheranno, la paga è giornaliera e almeno riusciremo a vivere più tranquillamente»
Maria tira un sospiro di sollievo che quasi fa spegnere la candela davanti a lei. «Menomale sono sollevata», dice alzandosi e raggiungendolo in cerca delle sue labbra.
Alessio le pone un bacio casto sulla bocca. «Inizio da domani, è meglio che vada».
Maria scioglie l’abbraccio nel quale l’aveva cinto e si fa da parte.
L’indomani mattina Alessio esce presto per recarsi verso Porta Susina, dove inizierà i lavori. Ci sono vari uomini che come lui si dirigono dalla stessa parte.
L’aria è fredda, il sole ancora non è comparso del tutto e il cielo ha un colore grigiastro che non promette nulla di buono.
Arrivato al luogo dell’incontro i capi cantiere li dividono, tra chi dovrà lavorare in superficie e chi invece è addetto ai lavori di scavo.
Alessio si mette in fila dalla sua parte per essere smistato nei vari gruppi di lavoro e nel mentre si guarda intorno alla ricerca di una testa bionda che però non riesce a scorgere.
Il primo giorno lo passa a scavare, spostare terra e scavare ancora. Stanno ampliando le gallerie sotterranee in particolar modo dotandole di gallerie di minatura che secondo i militari permetteranno loro di vincere o di far fuori il maggior numero di francesi, che comunque sarebbe una vittoria.
Alessio parla poco e lavoro molto, soprattutto perché lì sotto l’aria non li raggiunge facilmente nonostante i pozzi che dovrebbero portare l’aria dalla superficie.
La polvere e la terra si mescolano all’aria e gli riempiono i polmoni ogni volta che tenta di proferire parola, per quello il suo primo giorno passa così.
Quando torna a casa è esausto e a stento ce la fa mangiare, ma prima di rientrare gli hanno dato le 2 lire che gli spettano e lui ha potuto comprare pane fresco per la sé e per la sua famiglia.
Una consolazione che cerca di rendere il più preziosa possibile nel suo animo nel tentativo di trovare la forza di alzarsi per andare a lavorare il giorno successivo.
Più passano i giorni, più Alessio si abitua ai ritmi delle gallerie, la polvere nell’aria non gli da più fastidio come prima anche se di tanto in tanto tossisce forte tanto da doversi fermare qualsiasi cosa stia facendo.
È in uno di quei momenti che sente una mano leggera posarsi sulla sua spalla. Tutti i suoi compagni sono andati avanti, così si volta curioso e davanti a lui vede due occhi grandi e blu che lo fissano.
Il suo cuore si ferma per un attimo, non si vedevano da un mese, forse un po’ meno eppure non era passato giorno in cui Alessio non avesse tentato di scorgere tra i lavoratori i suoi capelli biondi dalle mille sfumature.
«Come sta andando?»
«Bene, costruisco gallerie che poi dovranno saltare in aria. Cosa potrebbe esserci di meglio?»
Gennaro sorride, nascondendo il viso dietro una mano. «Pensa che noi di sopra stiamo costruendo una specie di cornetto davanti la Mezzaluna, non so neanche a che servirà. Forse uno degli uomini di cultura aveva fame quando lo ha pensato».
Ridono insieme e le loro risate si mescolano rimbalzando sulle pareti.
«Mi sto prendendo una pausa, vieni con me?»
Alessio lo guarda e finge di pensarci ma in realtà aveva già deciso.
Per non essere disturbati decidono che la soluzione migliore è rimanere nei sotterranei e trovare una galleria un po’ nascosta, Alessio ne individua una che hanno finito di costruire da poco e deve essere ancora riempita del tutto.
Si accucciano a terra, uno difronte all’altro con le gambe incrociate.
«Come fai a lavorare qui sotto? Senza vedere mai il sole».
«A quello ci si abitua, alla polvere anche e almeno sono al caldo. Lì su tra un po’ si gelerà».
«Si gela già adesso, non basta spostare sassi tutto il giorno per scaldare i piedi».
«L’arrivo della primavera quest’anno non promette nulla di buono, quindi mi godo il freddo quanto più possibile».
Gennaro lo guarda a lungo con gli occhi stanchi. «Quest’anno la primavera sarà più dura dell’inverno».
Alessio non trova nulla da ribattere, perché è vero. Quell’anno non hanno neanche la speranza di una primavera ed un’estate prospere e calde, perché non appena la neve si scioglierà i francesi attaccheranno e chiunque di loro potrebbe conoscere il freddo eterno della morte.
«Ti vedo per la prima volta seriamente preoccupato per questa guerra».
«Sono preoccupato da quando hanno detto che i francesi ci stanno aspettando».
«No, è diverso. Stai pensando a qualcos’altro».
Gennaro lo fissa con lo sguardo imperscrutabile, non saprebbe assolutamente dire cosa sta pensando in quel momento. Poi rilassa la mascella, si abbandona al muro e riacquisisce l’espressione di sempre.
«Sono preoccupato per mio fratello, quasi sicuramente ci assegneranno a parti dell’esercito diverse».
«Hai un vero senso della famiglia nei suoi confronti».
«Ce lo avresti anche tu se avessi qualcuno da proteggere».
Lo stomaco di Alessio si stringe e pensa a Maria e a Marinella a casa ad aspettarlo, nella speranza di passare sempre più giorni insieme prima che qualcosa di brutto possa accadere.
«Promettimi una cosa».
Alessio si fa attento e si scosta con la schiena dal muro per andargli incontro.
«Se io non ci sarò, proteggi mio fratello».
Rimane interdetto per qualche istante ma quando sta per ribattere Gennaro prende di nuovo la parola.
«So che è stupido e che è tanto da chiederti ma mi sembri una persona buona e lui ha avuto una vita difficile e io mi sento responsabile nei suoi confronti ma non potrò esserci per sempre. Quindi», punta di nuovo gli occhi blu profondi nei suoi, come se in quel modo potesse convincerlo davvero e Alessio non fosse stato già convinto dal primo momento in cui aveva aperto l’argomento, «Mi prometti di fare ciò che è in tuo potere per proteggere mio fratello?»
Alessio annuisce con convinzione. Non sa perché per lui quella decisione è stata così facile da prendere, in realtà non è stata neanche una scelta. Semplicemente nel momento in cui Gennaro aveva pronunciato le parole “Promettimi una cosa”, lui era già pronto a giurargli fedeltà assoluta.
Il viso di Gennaro si apre in un sorriso di sollievo sincero. «Grazie», dice prendendo tra le dita la sua mano.
Non la stringe, non la scuote, semplicemente gli accarezza le dita con le sue, come a voler ribadire che delle sue mani si fida e che gli affiderebbe non solo il fratello ma anche qualcos’altro.
«Alessio!»
Alessio si riscuote all’stante caccia la testa dalla galleria nella quale sin sono nascosti. È uno dei suoi compagni ad averlo chiamato.
«Che stai facendo? Non ti trovavamo più».
«Scusa, sto controllando e finendo di sistemare questa galleria di contromina».
«Ah sì, l’altra squadra non era riuscita a finirla».
Alessio annuisce e spera che se ne vada, Gennaro dal canto suo è rimasto con le dita intrecciate alle sue e non emette fiato.
«Ti raggiungo subito, finisco di sistemare una cosa qui».
L’altro annuisce e se ne va. Alessio attende ancora qualche secondo poi tira un sospiro di sollievo. Non sa neanche perché si è agitato in quel modo, in fondo non stanno facendo nulla, eppure c’è qualcosa nel modo in cui si tengono ancora per mano che gli fa sentire la pressione di star facendo qualcosa di proibito e osceno.
Gennaro slaccia la mano dalla sua e gli scivola davanti per andarsene. Prima di uscire completamente dal suo campo visivo si volta e gli sorride. «Ci vediamo».
*
I mesi invernali passano veloci tra il lavoro nei sotterranei e l’inverno che rende sempre più difficile procacciarsi del cibo nonostante il salario giornaliero.
Alessio esce spesso di casa che il cielo è ancora scuro e torna che il sole è già calato. Se non fosse per alcuni fugaci giorni di riposo potrebbe dire di non vederlo da settimane ormai.
Non passa che pochi fugaci attimi con la sua famiglia. Quando torna a casa è così stanco che riesce a stento a dare un bacio sulla fronte di Marinella e poi crolla esausto spesso sulla sedia davanti il camino ancora acceso.
Con Maria parla a stento, forse per colpa della guerra forse per il senso di colpa che si porta nel petto a causa di due occhi blu come l’acqua del fiume che fatica a dimenticarsi persino quando la moglie tenta di avere con lui un contatto più profondo.
Quei pensieri lo rendono nervoso e inquieto nei momenti in cui dovrebbe essere più felice, eppure non riesce ad eliminarli dalla sua mente.
Insieme all’inverno si acuisce anche la paura dei francesi, alcuni dicono che stanno ricostituendo il loro esercito che a costo delle persone perse a Verrua e a Chivasso erano riusciti in qualche modo a rendere più esiguo.
Le notizie che arrivano dall’oltralpe sono tetre, il lavoro nei sotterranei è cupo, l’umidità spesso gli entra nelle ossa così a fondo che neanche quando torna a casa riesce a scaldarsi sul serio.
Se non fosse per i suoi fugaci incontri con Gennaro probabilmente penserebbe di esser finito già all’inferno.
Era iniziato tutto qualche sera dopo la promessa che si erano scambiati, Gennaro gli aveva offerto da bere dopo il lavoro e lui aveva accettato.
C’era stato tanto di quel vino che neanche ricorda quanto ne ha buttato giù, sa solo che non era stato così tanto da permettergli di giustificarsi con esso il giorno dopo essere calato sulle sue labbra con ardimento e passione che non aveva provato mai in vita sua.
Dopo la prima volta sebbene sperasse di togliersi dalla testa Gennaro e i suoi occhi blu, era entrata in gioco la sensazione morbida e dolce delle sue labbra sulle sue ad acuire il desiderio che provava.
A giudicare dal modo in cui Gennaro lo veniva a trovare e a cercare anche lui non doveva provare un tormento minore.
Ha cercato spesso un modo per non cedere più a quegli incontri, ha cercato spesso il modo di allontanarsi, ma più ci prova più si ritrova coinvolto dalla rete che ha tessuto il biondo.
Più tenta di non pensarci più gli torna in mente.
Ha smesso di provare ad allontanarlo da sé sia fisicamente che mentalmente una sera che se l’è sognato e la moglie gli ha chiesto chi fosse questo Gennaro che continuava a chiamare nel sonno.
In quell’occasione è riuscito a cavarsela con una scusa ma da quel momento ha smesso di privarsi di lui.
Il giorno in cui arriva la notizia che i francesi stanno riconquistando la posizione è un bel giorno di primavera, in cui l’aria è fresca ma il sole splende e Alessio fino a quel momento aveva davvero sperato di potersi godere ancora qualche giorno in pace.
Il lavoro è terminato pochi giorni prima e Alessio ancora non si abitua alla bellezza di godere del sole per così tante ore al giorno.
«Credo che mi metteranno sul secondo camminamento a sparare a chiunque si avvicinerà troppo al fossato», dice Gennaro rompendo il silenzio attorno al posto riparato che hanno trovato sotto un portico.
Alessio gli accarezza mollemente il petto, scacciando via ogni pensiero tetro poiché godendosi gli ultimi attimi di quiete prima dell’inizio dell’assedio.
*
Torino, 29 agosto 1706
Il crollo di un’altra delle gallerie gli fa chiudere gli occhi istintivamente e aggrapparsi forte alla baionetta che tiene in mano.
Sono giorni che non esce dalle gallerie, rimane giorno e notte ora nell’una ora nell’altra per assicurarsi di dar fuoco alla miccia che farà esplodere il terreno da sotto i piedi dei francesi.
La battaglia sta andando avanti mietendo vittime sia nell’uno che nell’altro schieramento, nel fossato davanti le mura ci sono centinaia di corpi che Alessio neanche riesce a distinguere se siano francesi o meno.
I volti che incontra nelle gallerie sono stravolti, nessuno ha la forza di parlare per più dello stretto necessario e tutti si augurano che quell’inferno finisca al più presto.
Quella sera è stato assegnato alla scalinata che si trova proprio vicino il fossato dove la battaglia si svolge in maniera più aspra. Come compagno quella sera gli è capitato Vittorio, il fratello di Gennaro.
Non è la prima volta che svolgono un turno insieme e Alessio in un certo qual modo ne è felice perché almeno può sapere qualcosa riguardo Gennaro, che ormai non vede da mesi. Praticamente dall’inizio dell’assedio.
Sa che è vivo, altrimenti Vittorio sarebbe stato avvertito, ma non ha modo né tempo di vederlo, né di parlare con lui.
Forse da un certo punto di vista è un bene, considerando tutto ciò che è successo tra di loro non sarebbe facile sostenere i suoi occhi e sapere che potrebbe essere l’ultima volta che potrebbe vederli.
Nonostante Vittorio sia diverso da Gennaro in tutto, Alessio sente che il solo stargli vicino lo avvicini in qualche modo a lui.
Su pensieri del genere cerca in tutti i modi di non soffermarsi più di tanto, perché rendono o stare chiuso lì sotto ancora più spiacevole.
«Quando pensi finirà?» gli chiede Vittorio con la testa appoggiata al muro della galleria e la baionetta tra le braccia.
Alessio prende un respiro. «Non lo so».
«Cosa farai dopo l’assedio?»
«Se ci prendono i francesi intendi?»
Vittorio ride appena. «Non lo dire neanche per scherzo, dopo essermi spaccato la schiena per costruire queste gallerie come minimo devono pararci il culo e farci vincere».
Alessio ride con lui piano. Non ha nulla di Gennaro, è molto più spontaneo, meno posato, meno affascinante eppure c’è qualcosa nel modo in cui appoggia la testa al muro, al modo in cui atteggia le labbra quando è in ascolto che glielo ricorda in qualche modo.
«Non so cosa farò. Probabilmente me ne starò steso a guardare il sole per tutto il tempo che non ho potuto guardarlo in questi mesi».
«A chi lo dici. Io non vorrò vedere una galleria mai più».
Le loro parole vengono interrotte da una scarica di colpi e delle urla strozzate appena fuori la porta.
Alessio si riscuote e si alza immediatamente. Avvicina l’orecchio alla porta e sente le voci di alcuni commilitoni scambiarsi ordini.
«Qui fuori sono ancora italiani», dice a Vittorio che è rimasto dietro di lui, in attesa di sapere cosa fare.
Alessio decide di aprire di pochissimo la porta e vede che vari suoi concittadini stanno cercando di rimandare indietro i francesi che scendono nel fossato grazie ad una breccia.
Quando vede l’ennesimo francese venire fulminato all’istante richiude la porta e la sbarra, voltandosi verso l’altro.
«Tra poco saranno qui, non riusciranno a fermarli tutti. Se questo succede dobbiamo accendere la miccia e scappare il più in fretta possibile».
Vittorio annuisce ma è palesemente spaventato a morte, gli occhi sono grandi e Alessio giurerebbe di sentir battere il suo cuore nel petto.
L’adrenalina e l’agitazione si mescolano quando per l’ennesima volta sente i fucili sparare ma questa volta sente anche le grida di alcuni italiani risuonare nella galleria.
Il respiro accelera e il petto si alza e si abbassa velocemente. Guarda Vittorio che si posiziona accanto alle mine predisposte esattamente per quell’eventualità.
Al di là della porta scoppia il putiferio. Si sentono imprecazioni in francese e in italiano, grida di uomini feriti o uccisi Alessio non saprebbe dirlo. Sente un ultimo colpo di fucile poi più nulla, fino ad un ordine in francese che non capisce per filo e per segno ma che sa con certezza voler significare solo una cosa: morte.
«Vai, vai. Accendila», incita Vittorio che è l’uomo predisposto a quel compito mentre lui si accerta che la porta di sbarrata perfettamente poco prima che un forte pugno si abbatta su di questa facendo cigolare il legno.
Parole francesi che assolutamente non capisce vengono urlate da attraverso la porta mentre quest’ultima viene battuta con forza da chissà quanti uomini.
Alessio sa che non potrà reggere in eterno quella porta e che se i francesi riusciranno a buttarla giù non sarà la fine solo per loro ma per tutti.
Se fossero riusciti ad entrare lì avrebbero trovato il camminamento centrale che collegava tutte le gallerie di contromina e a quel punto non ci sarebbe stato più nulla che i torinesi avrebbero potuto.
Si volta a guardare Vittorio che impaurito com’è non sta riuscendo a posizionare la miccia e accenderla.
«Non riesco, non riesco».
Il cuore gli batte all’impazzata al ritmo delle raffiche di pugni che i francesi stanno scaricando sulla porta. Per un attimo e solo per un attimo pensa di fuggire, di lasciare Vittorio al suo compito e scappare il più lontano possibile.
Subito, però, gli torna in mente che nessun luogo sarà così lontano dai francesi e dal senso di colpa che proverebbe nell’aver tradito la promessa fatta a Genn mesi prima.
In un impeto si scosta dalla porta e scende le poche scale che lo separano da Vittorio.
«Dai spostati che ci mettiamo tutto il giorno così, scappa io ti raggiungo».
Vittorio lo guarda con occhi grandi di paura ma dopo avergli lasciato spazio per mettere la miccia e adoperarsi per accenderla non accenna ad andarsene.
«È inutile che rimani qui. Inizia a scendere, io ti raggiungo».
«Ma…»
«Vai!»
Quello di Alessio adesso è un ordine e sul viso di Vittorio adesso non vede solo gli atteggiamenti di Gennaro ma anche quelli più infantili di Marinella e lo stomaco gli si stringe ancora di più, per la paura di non rivederli, per la paura di lasciarli nelle mani dei francesi.
Vittorio si volta e inizia a correre giù per le scale.
La porta cigola terribilmente sotto i colpi dei francesi, Alessi sa che sta per cedere. Non ha tempo di posizionare la miccia in modo da avere abbastanza tempo per scappare e mettersi in salvo.
Quindi fa l’unica cosa che gli viene in mente al momento. Lascia perdere il prolungamento della miccia e accende direttamente quella corta.
È un attimo che con l’acciarino crea una scintilla che inizia a correre verso le mine.
Si volta e corre all’impazzata giù per le scale, sente la porta aprirsi dietro di lui ma non si volta poi all’improvviso qualcosa lo investe spingendolo giù per le scale e tutto si fa buio.
*
Superga (Torino), 30 agosto 1706
Vittorio Amedeo, in sella al suo cavallo, guarda Torino da basso. Da dove si trova non vede che fumi e fuochi levarsi dal campo di fronte la Mezzaluna del soccorso.
Gli è giunta voce che quella mattina un soldato torinese ha dato la vita per proteggere la galleria maestra dai francesi.
Se fossero riusciti a scovarla… Il Duca non vuole neanche pensare ad una simile eventualità.
Uno scalpiccio di zoccoli attira la sua attenzione. Suo cugino, con portamento regale, così come quello che si addice ad un principe, si avvicina a lui.
«Cugino», lo saluta con un cenno del capo.
Finalmente il Principe Eugenio di Savoia è giunto a dar loro man forte nella battaglia. Grazie alle gallerie di mina e contromina sono riusciti a tenere testa al numero spropositato di uomini che i francesi gli hanno messo contro.
C’erano stati momenti in cui Vittorio Amedeo aveva temuto il peggio, ma adesso con Eugenio di Savoia accanto a lui, che ha portato uomini freschi in quantità e con le gallerie ancora salve dai francesi si permette di sperare che quella battaglia andrà a buon fine.
Perché dopotutto, loro sono torinesi e Torino rimarrà per sempre la loro casa.