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Fandom: originale liberamente ispirato alla storia dei quaranta elefanti
Pairing: //
Rating: SAFE
Warning: sebbene l'idea sia presa da fatti realmente accaduti i personaggi sono totalmente inventati così come altri elementi
NOTE: Questa storia partecipa al COWT 14 di LDF per la PRIMA SETTIMANA, M2, con prompt "Non ti azzardare" disse tra i denti

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«Non ti azzardare», dice tra i denti. Dice, forse, non è il termine adatto. Lo sputa tra i denti, insieme ad una quantità di disprezzo e odio che Lucy Pond raramente ha visto negli altri. Eccetto quando si guarda allo specchio.

L’uomo ritira la mano per portarla nuovamente sopra la testa come lei ha chiesto di fare a tutti non appena entrata. La canna della pistola continua a puntare alla sua testa ma Lucy è certa che sono i suoi occhi quelli di cui il nobile ha paura.

Lucy è certa di averlo visto ad uno dei tè – o forse dei balli? – organizzati nella casa in cui serve da che ha memoria. I ricordi sono annebbiati, si capovolgono come se il suo cervello si stesse riassestando su una nuova dimensione.

Il caos che imperversa nell’atelier di certo non aiuta. Le donne sono entrate come una furia, prive di ogni grazia si convenga ad una signora. Ridono sguaiatamente, urlandosi comandi e rubando tutto ciò che gli capita a tiro.

Centro nevralgico dell’uragano femmineo è lei. Anne Diamond. Immobile e sicura nel suo abito di buona fattura, se ne sta con le gambe aperte a fissare l’unico uomo presente nell’atelier. L’acconciatura ben fatta, i guanti ricamati di pizzo e i lineamenti docili si scontrano con lo sguardo austero, il braccio teso dinanzi a lei e la postura meno aggraziata che Lucy abbia mai visto assumere da una donna.

Sposta il peso su una gamba ma il clic di una pistola la immobilizza sul posto.

«Ho per caso detto che potete muovervi?».

Anne Diamond non la guarda, ma Lucy vede distintamente il luccichio della canna corta di una pistola che punta dritta verso di lei, passando sotto il braccio teso verso l’uomo.

«No, mia signora», squittisce Lucy. Se non fosse stata calamitata dalla sua figura forse si sarebbe risentita per il tono sommesso che le è scappato dalle labbra.

Quasi pensa che stia per dirle altro quando con voce ferma e potente – come Lucy si immagina essere quelle delle attrici di teatro – esclama: «Signore, è l’ora del tè».

Se possibile, il turbinio di argenteria, stoffe pregiate e cappelli con le piume si fa ancora più frenetico finché tutte non spariscono dalla porta così come sono entrate.

A chiudere la parata resta Anne Diamond che tiene entrambe le pistole puntate sui clienti dell’atelier finché non scompare nel rettangolo buio in un vortice di stoffa blu.

Per un solo secondo tutti restano in silenzio terrorizzati o semplicemente troppo scioccati da ciò che è successo.

Poi, la dama poco vicino a lei sviene, qualcun altro accusa un malore.

Lucy è certa che l’uomo preso di mira se la sia fatta sotto. In quella cacofonia di grida e rumori striduli capisce cosa deve fare.

Scatta in avanti come se qualcosa l’avesse tirata per l’addome, se la dama che serve la sta chiamando Lucy non ne ha idea.

Il cervello continua a rotolare su sé stesso, i sensi percepiscono le cose in modo diverso, più affilato, più presente a sé stessi. Come se d’un tratto qualcuno gli avesse tolto una benda da davanti gli occhi, del cotone dalle orecchie, dei guanti dalle mani.

Scende le scale dell’atelier a due a due, si catapulta fuori dalla porta e cade rovinosamente dentro una pozzanghera.

Il vestito nero simbolo del suo status si insudicia fin sulle ginocchia ma al momento non le interessa.

Spinge lo sguardo tra la folla ma delle donne di poco prima non c’è traccia. Si rialza velocemente, sotto gli sguardi di biasimo della nobiltà londinese.

Un nugolo di persone, che capisce solo dopo essere poliziotti, sale all’impazzata le scale dell’atelier – manco volessero caderci dentro alle scale.

Con una punta di rimorso si rende conto che deve tornare al piano di sopra e spiegare alla sua dama perché è scappata via come furia.

Certo potrebbe inventarsi che è scesa per cercare di acchiapparla e cercare aiuto… potrebbe funz-

Il mondo dinanzi ai suoi occhi si riempie di stelline bianche quando dalla nuca nasce un dolore acuto che si propaga per tutta la testa.

Resta senza parole per un secondo o due.

Poi i sensi ricominciano più o meno a funzionare e un viso segnato dal tempo e da varie cicatrici invade il suo campo visivo.

«Dove sono le altre?»

Lucy ci mette qualche secondo per comprendere appieno le implicazioni della frase.

«Non so di cosa stiate parlando».

«Non ti conviene mentire», dice spingendola sul muro contro cui le aveva fatto sbattere la testa, «Non sono paziente con i bugiardi».

Lucy si sente alzare per il colletto del vestito da serva finché i piedi non penzolano nel vuoto. Si aggrappa ai polsi e con meno sicurezza ripete ciò che ha già detto.

«Forse non hai capito la situazione in cui ti trovi», continua il poliziotto avvicinandosi così tanto al suo viso che Lucy sente l’alito darle il voltastomaco.

Per un attimo valuta di mentire e di dire che sa dove sono i quaranta elefanti e che tornerà presto da loro. Poi ci ripensa, forse se si mettesse a piangere la lascerebbe andare.  Se dai agli uomini ciò che si aspettano non ne saranno spaventati e si compiaceranno di conoscerti, sua madre lo ripeteva sempre prima di ammazzarsi di lavoro per un uomo che si compiaceva di vederla soffrire.

«Oh ma eccoti!», esclama una voce che non riconosce, «Cosa hai combinato questa volta?»

Lucy alza lo sguardo verso la donna vestita di una stoffa sgargiante che sembra brillare anche sono il pallido solo di Londra. Il viso è coperto per metà da una corta veletta che scende da un cappellino che sembra reggersi sull’acconciatura alta per miracolo.

La pelle chiara risalta nonostante il colore acceso dell’abito e le labbra ben delineate accennano un sorriso sicuro.

«La conosce?», chiede l’agente ammorbidendo la presa, lasciandole la possibilità di respirare un po’ meglio.

«Oh, mio caro, agente. Eccome se la conosco. L’ho presa a lavorare in casa mia dopo che la madre al posto della madre che è caduta malata per buon cuore», inizia alternando un tono così civettuole che stride anche alle sue orecchie abituate a sentire le chiacchiere delle nobildonne. L’agente però non sembra farci caso. «Non c’è giorno in cui non me ne penta», continua con tono esasperato, «Se non fosse per la mia fede gliela lascerei portare in prigione adesso. Ma mi dica agente, cosa è accaduto?».

L’agente lascia che Lucy possa rimettere i piedi a terra ma non la lascia ancora andare.

«Mia signora, c’è stata una rapina e la sua domestica è stata trovata sul luogo del crimine».

«Oh, perbacco. Una rapina? Qui in strada? E cosa avrebbero rubato?»

«No la rapina è avvenuta nell’atelier al secondo piano».

«Quindi la mia domestica è stata trovata nelle vicinanze. Ha della refurtiva con sé?»

«Beh ecco… non saprei».

«Hai rubato qualcosa, ragazza?», dice la dama rivolgendosi a lei in tono perentorio.

Lucy tiene lo sguardo basso e scuote la testa.

«Quindi hai fatto perdere tempo a questo esimio agente senza motivo. Sei sempre la solita seccatura», la rimprovera la dama prendendola per un braccio con una presa che solo all’apparenza poteva sembrare ferrea. Lucy sulla pelle sente solo delle dita morbida protette da guanti di seta.

«Sono rammaricata di averle fatto perdere tempo, mio signore», dice la dama alzando di poco la veletta per guardare dritto negli occhi la guardia che tossisce appena e distoglie subito lo sguardo.

«È solo il mio dovere».

«E siamo tutti fortunati che uomini della sua tempra e perizia lo svolgano con cotanta solerzia».

Se possibile l’uomo si fa ancora più rosso e la dama prende la palla al balzo.

«Le occorre ancora la mia domestica, agente?»

«Oh, no. Si è trattato di un eccesso di zelo. È tutto in ordine però».

«Le dispiace allora se torniamo verso casa, ho bisogno di riposare e ricordare a questa giovane che non si fa perdere tempo agli onesti lavoratori di questo paese».

«Certo, mia signora. Le auguro una buona giornata».

La dama rivolge un ultimo ossequioso saluto al poliziotto e poi la spinge in avanti verso le strade affollate di quella zona di Londra.

Lucy la guarda di sottecchi. La donna non abbassa mai lo sguardo e di tanto in tanto piega la testa accennando un saluto verso altri nobili e nobildonne.

«Mia signora…», tenta.

«Silenzio.», intima l’altra. «Non ora».

Lucy si guarda intorno e constata che nessuna nobildonna dialoga con la servitù che segue sempre a qualche passo di distanza, muta. Decide che per quante domande le si agitano in testa per adesso è meglio fare come le viene detto. Del resto, la sua vera padrona sarà ormai convinta che è andata persa per sempre e se per caso si azzardasse a tornare indietro le toglierebbe dalla testa ogni idea di rivalsa con i suoi metodi.

Si strofina istintivamente l’avambraccio al pensiero, quando la dama scarta di lato per passare dietro una carrozza che copre un vicolo stretto e maleodorante. Lucy è certa che più di qualcuno lo usi come latrina.

La dama non si cura del vestito che struscia sulle pareti sudicie e si blocca davanti una porticina minuscola e altrettanto mal messa.

«Prima di proseguire, qual è il tuo nome?»

«Lucy Pond».

«Bene, Lucy Pond. Pensi di essere abbastanza disperata per entrare a far parte dei quaranta elefanti?»


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