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Fandom: Festival di Sanremo RPF; Lauro & Edoardo
Warning: MythologicalCreatures!AU, Childhood fic; Arpia!Lauro; Gorgone!Edo; accenni a passati episodi di bullismo/violenza
Prompt: ARPIA, GORGONE

Questa storia è stata scritta per l'EOP di Lande di Fandom



Edoardo corre a perdifiato evitando i tronchi degli alberi, i rami bassi e le radici che gli tendono trabocchetti durante la fuga.

Ha gli occhi rossi e la vista appannata, a bocca aperta inghiotte l’aria che gli sbatte addosso raschiandogli la gola, lasciandogli sapore metallico e scie di sangue sulla lingua. Non ha intenzione di fermarsi, non ha intenzione di tornare, l’unica pulsione che sente è quella delle gambe, lo implorano di non arrestarsi, di lasciarsi tutto alle spalle.

Il resto dei suoi organi chiede pietà ma lui non li ascolta. Il cuore accelera ma non ce la fa a stare al ritmo delle sue gambe. I polmoni si velocizzano ma non riescono a tenere a bada la sua rabbia. Però, le gambe seguono la sua anima e non vogliono fermarsi.

Finché non ne sono costrette.

Edoardo cade faccia avanti, le mani che riescono incredibilmente ad evitare il colpo secco del viso sulla terra. Una dopo l’altra ogni parte del suo corpo inizia a dolere come se si susseguissero in un rapido appello.

I palmi bruciano scorticati, così come le ginocchia. La caviglia fa male per la storta che ha preso; le spalle per il contraccolpo; la milza per la fatica; la gola per l’aria ingerita; gli occhi per le lacrime copiose; i denti per la botta che si sono date le due file; per ultime le gambe iniziano a fargli male per lo sforzo.

Si rannicchia valutando i danni della sua fuga: la tunica a mezza coscia che indossa è sporca e strappata. Con il dorso della mano si pulisce il viso dalle goccioline di sudore che si posano sul labbro superiore e sulle sopracciglia.

Ostinato non lascia scendere altre lacrime e si morde il labbro assaggiando la terra che gli si è attaccata al viso nel momento della caduta. Sa che prima o poi dovrà tornare indietro, e questa consapevolezza lo rende nervoso e ancora più triste.

Perso nei suoi pensieri tetri e bui, non si accorge che poco distante qualcuno lo sta guardando.

 

 

Non osa avvicinarsi ma non può neanche andarsene lasciandolo così rannicchiato nel bosco. Sembra così triste.

Deve essere un bambino del villaggio, valuta attento. Strano che un bambino del villaggio si trovi così dentro il bosco. Si sarà forse perso? Magari piange per questo?

Pensando e ripensando a qualcosa da dire non si accorge di aver calpestato un ramoscello che spezza il silenzio.

Il bambino alza lo sguardo e lui rimane senza parole alla vista dei suoi occhi piccoli e affilati, di un colore indefinito tra il verde e il castano chiaro attraversati da una pupilla verticale nera e sottile. Sembra la fessura del Tartaro, prigione dei Titani. Ha il viso sporco di chi ha pianto e si è pulito con le mani piene di terra.

Per un attimo si è dimenticato del suo aspetto ma non appena il bambino scatta in piedi, fa un passo indietro memore dei precedenti incontri che ha avuto con gli esseri umani, di alcuni porta ancora le cicatrici sotto le piume delle ali.

Si guardano per interminabili minuti, incapaci di fare alcunché se non scrutarsi per capire, per essere certi che quello dinanzi sia un volto amico. Poi la curiosità di Lauro ha la meglio e forte della consapevolezza delle sue ali e dei metri che li dividono, decide di parlare.

«Ti sei perso?»

Il bambino scuote la testa.

«Ti sei fatto male?»

Scuote di nuovo la testa, incurante dei palmi e delle ginocchia ferite.

Lauro piega la testa di lato, guardandolo assorto. «Non ti hanno insegnato a non dire le bugie?»

«Non ho detto una bugia», risponde l’altro con il tono piccato di chi è stato ferito nell’orgoglio.

Fa spallucce, decidendo di far cadere il discorso. Poi si siede a gambe incrociate sul tappeto di fogliame e ramoscelli. «Mi chiamo Lauro».

«Edoardo», risponde imitandolo senza avvicinarsi.

«Perché piangevi?»

«Perché mi fai tante domande?»

Lauro non risponde, perché una risposta non ce l’ha. «Fammene qualcuna tu».

Edoardo si illumina. «Quanto in alto riesci a volare?»

Ci pensa su. È una domanda difficile, non si è mai messo alla prova con le altezze. Non ancora almeno. «Come gli alberi, credo», risponde indicando verso l’alto le fronde inondate dal sole primaverile. Lo sguardo viene rapito dai giochi di luce che si creano tra le foglie, finché il bambino davanti non rompe il silenzio.

«Mi ci puoi portare?»

«Dove?»

«Sulla cima degli alberi», risponde semplicemente puntando un dito verso l’alto.

Lauro lo guarda sgranando gli occhi, poi guarda la punta del suo dito e verso dove indica ed infine riporta di nuovo lo sguardo sul suo viso, certo che lo troverà a ridere. Invece Edoardo è serio. Le pupille verticali lo fissano imperterrite e Lauro sente le ali fremere sotto il suo sguardo carico di aspettativa.

«Non so se ce la faccio…», comincia alzandosi.

«Ma sì che ce la fai!» esclama l’altro con un’allegria ed un entusiasmo tali che se Lauro non lo avesse visto con i propri occhi non avrebbe mai indovinato che pochi minuti prima stava piangendo.

Si passa le mani sulle cosce e sulle ginocchia, facendo cadere le foglie rimaste imbrigliate tra le piume e tra i vestiti.

«Vediamo…ehm…allora…», inizia spiegando le ali di un nero grigiastro dietro di sé.

 

 

Edoardo si avvicina entusiasta, senza riuscire a staccare gli occhi dalle ali di Lauro. Dall’esatto momento in cui le ha notate non è riuscito a trattenersi e ha dovuto chiederglielo. Nessuno degli altri bambini possiede delle ali, né tanto meno delle dita che terminano in artigli acuminati o occhi completamente neri e lucenti solo al centro di un dorato così intenso che – ne è certo, anche senza averla mai vista – sono dello stesso colore dell’ambrosia, nettare degli dei.

«Come… come vogliamo fare?»

«Io mi metto così – dice dandogli le spalle e allargando le braccia – tu mi prendi attorno alle spalle… Ecco bravo così. E tienimi forte. Perfetto. Se adesso riesci a librarti in volo abbiamo fatto».

Lauro non risponde per alcuni istanti, intento com’è a cercare di prenderlo bene. I suoi artigli sono a pochi centimetri dal viso di Edoardo e lui può sentire perfettamente quanto tutto lo renda nervoso.

D’un tratto il timore di aver forse esagerato e di avergli chiesto troppo si insinua tra i suoi pensieri ma prima che possa aprir bocca Lauro dispiega le ali e si da una forte spinta.

Edoardo sente lo stomaco andare sottosopra. Sente gli artigli di Lauro stringersi di più attorno alle sue spalle ma come può curarsi di qualche graffio adesso che il terreno diventa sempre più distante e lui è sospeso in aria?

Con un altro forte colpo d’ali Lauro sale ancora e ben presto Edoardo si ritrova un ramo a pochi centimetri dalla faccia.

«Attento ai ra…», la frase viene bruscamente interrotta da alcune foglie che gli entrano in bocca.

«Scusa», sente dire a Lauro mentre lui tossisce e sputa. «Non è stata una buona idea salire da… Ahi!» esclama nel momento esatto in cui entrambi pendono pericolosamente verso destra.

«Ti sei fatto male?», chiede non appena sente che hanno ritrovato l’equilibrio.

«No. No, ce la faccio».

Lo sa, anche se non può vederlo in volto, che sta facendo appello a tutte le sue forze in quel momento.

 

 

 

Dopo qualche altro ramo in faccia e un paio di volte in cui è stato praticamente certo che Edoardo gli sarebbe caduto dalle braccia, finalmente superano le cime degli alberi.

«È straordinario», dice mentre si arrampica su di un ramo che sembra riuscire a reggerlo.

Lauro si siede di fianco a lui e finalmente lascia riposare le ali, irrigiditesi per lo sforzo.

Da lì riescono a vedere tutte le cime degli alberi intorno e anche il villaggio dove vive Edoardo ma casa sua non si vede, è troppo vicino al bosco e rimane coperta dagli alberi.

È un paesaggio che Lauro è abituato a guardare in solitaria e adesso gli sembra diverso, come se ci fosse più colore o più movimento, non riesce a spiegarselo.

«Tu dove vivi?» chiede Edoardo, interrompendo i suoi pensieri.

«Lì», risponde semplicemente indicando le montagne dall’altro lato del bosco.

«Lì? Non ce l’hai una casa vera?»

Lauro lo guarda un po’ di traverso. «Lo hai capito che sono un’arpia, vero?»

«Certo, che l’ho capito. Mia madre è una gorgone ma viviamo comunque in una casa», risponde semplicemente facendo spallucce.

Per qualche motivo Lauro capisce che non voleva insultarlo o deriderlo, ha semplicemente detto ciò che gli passava per la mente.

«Se tua madre è una gorgone perché non hai i serpenti sulla testa?»

Edoardo sembra cercare la risposta chissà dove dentro di sé. «Forse mi cresceranno quando sarò più grande. Le zie non hanno figli quindi non so come sarà per me, spero non mi crescano affatto però. Già nascondere gli occhi è difficile…»

Istintivamente Lauro si stringe nelle ali e nasconde gli artigli sotto la veste. Edoardo deve accorgersene perché lo guarda per un po’ senza parole e poi si scusa. «Non volevo dire che… Cioè, tu non hai niente da nascondere: le tue ali sono bellissime».

«Ma i miei artigli fanno paura, così come i miei occhi».

Edoardo non gli risponde, fa penzolare le gambe dal ramo spingendole leggermente avanti e indietro. «A me non fai paura».

Lauro si volta a guardarlo di scatto, lo vede fissarlo sincero e onesto. «Questo perché sei strano come me».

La bocca di Edoardo si apre in un sorriso coinvolgente che lo trascina e lo costringe ad imitarlo.

«Se io avessi le tue ali scapperei via», dice d’un tratto tornando serio. Lauro lo guarda e aspetta che aggiunga qualcosa ma non lo fa.

«Dove andresti?»

«Ovunque, lontano da qui, dal villaggio, da mia madre. Magari oltreoceano, dicono ci sia un impero enorme con degli animali mai visti prima. Magari si trova un intero villaggio di gorgoni».

Lauro lo ascolta senza fiatare, sente che quella confessione è qualcosa di importante.

«Tu non vorresti scappare?», chiede d’un tratto.

«Le arpie vivono sulle montagne, lontano dagli uomini. Qualsiasi posto sarebbe uguale a questo».

«Non pensi mai che ci potrebbe essere qualcosa di più, un posto dove finalmente non dobbiamo più nasconderci?»

«Sulle montagne non mi devo nascondere».

«Pensi che io potrei vivere sulle montagne?»

«Non credo riusciresti senza ali. Sono ripidissime e le piume mi tengono al riparo dal freddo. I tuoi eventuali serpentelli morirebbero congelati»

«Lo sospettavo. Allora ci troveremo qui», dice risoluto.

«Qui?»

«Beh, sì. Qui. Dove ci siamo incontrati insomma. Poche persone del villaggio vengono nel bosco. Qui non ci dobbiamo nascondere».

Lauro lo guarda e sente la convinzione e l’entusiasmo passare da Edoardo a lui.

«Sarà il nostro posto segreto», continua il ragazzino sempre più convinto.

«Sai che un posto non è più segreto se tutti sanno dov’è, vero?»

«Certo che lo so. È segreto perché nessuno saprà che è nostro», risponde Edoardo con un entusiasmo tale da farlo agitare un po’ troppo sul ramo.

«Va bene, allora. Il bosco è il nostro posto segreto», concede Lauro dopo averlo aiutato a ritrovare l’equilibrio.

«Dove non ci dobbiamo nascondere»

«Il posto dove non ci dobbiamo nascondere», risponde Lauro ripentendo tra sé le parole di Edoardo. Il posto dove possiamo essere visti, guarda il bambino accanto a lui perdersi in pensieri tanto lontani quanto familiari.

Ben presto il sole inizia a scendere, illuminando gli alberi, le case del villaggio e le montagne di arancio.

«Dobbiamo andare».

Edoardo si riscuote a fatica dal sogno ad occhi aperti che gli affolla la mente. «Sì, andiamo».

Non senza fatica, Lauro riesce a prenderlo in modo che non gli cada mentre lo porta giù, stavolta riuscendo incredibilmente ad evitare rami e fronde.

Atterrano con qualche difficoltà ma tutto sommato sono interi. Edoardo ha ancora l’entusiasmo che sprizza da tutti i pori.

«Allora ci vediamo domani?»

Lauro annuisce con convinzione e lo guarda andare via, finché i tronchi fitti del bosco non lo coprono alla sua vista.

È strano quel ragazzino, non riesce a smettere di ripeterselo mentre torna a casa, sulla cima delle montagne isolate. Non sono solo gli occhi è tutto strano, continua a rimuginare mentre si accovaccia nella fessura tra le rocce che gli fa da casa. È strano come me, pensa infine quando la luna è già alta e la stanchezza prende il sopravvento.



 


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